La sezione Arte di Cultweek torna dopo la pausa estiva con il ricordo di Claudio Cerritelli, straordinario critico e studioso della pittura non figurativa italiana contemporanea, che si è spento il 1° agosto dopo una lunga malattia a settantun anni. Elisabetta Longari, studiosa e critica, collega di Cerritelli a Brera e sua grande amica, ne traccia un ritratto struggente, in equilibrio tra il dolore della perdita e il linguaggio critico che li accomuna.
Claudio Cerritelli, una delle migliori menti della critica d’arte della mia generazione (quella degli anni Cinquanta) purtroppo non scriverà più, non affronterà più con il suo sguardo acuto la fenomenologia delle immagini. Abruzzese di nascita (Roccaraso, 1953), formatosi all’Università di Bologna come allievo di Paolo Fossati, altro fuoriclasse della lettura dell’opera d’arte e della scrittura critica, aveva scelto Milano come città dove vivere e lavorare. Non pare il caso di ripercorrere qui, elencandone i titoli, i suoi più importanti contributi, dapprima nell’ambito dell’informale, poi della pittura analitica, altrimenti detta aniconica, e dell’astrazione e i numerosi approfondimenti monografici su diversi artisti; i curiosi troveranno agevolmente tutta la sua bibliografia, o quasi, cercando con Google.
Claudio, lontano da ogni conformismo culturale, non inseguiva le mode, gli artisti emergenti, le novità, ma rivolgeva un’attenzione spiccata alle dinamiche creative più profonde che funzionavano come motori di ricerche, le quali indifferentemente potevano essere alla ribalta sotto i riflettori del successo oppure più segrete e ai margini. Anzi, forse prediligeva proprio queste ultime, se non altro per quel gusto per l’ignoto, con la sensazione di stare avventurandosi in terre sconosciute senza altra bussola se non il proprio senso dell’orientamento. Incarnava la figura del critico come interprete acuto e visionario, eretico ed erratico (prendendo in prestito i due termini da Licini). Rivolgeva una concentrazione particolare all’ascolto della voce delle opere, degli artisti, all’analisi degli spazi dove il lavoro si sviluppa e prende forma, ovvero gli studi, ma era anche attento decodificatore di quegli ambienti occupati solo temporaneamente per l’allestimento espositivo di una mostra; non gli bastava constatare e descrivere, da questi dati partiva seguendo i numerosi fili delle proprie intuizioni. Una memoria fenomenale sorretta da una spiccata e profonda precisione faceva di lui un attribuzionista eccezionale da diversi punti di vista: come riconosceva facilmente persone non immediatamente identificabili in fotografie di gruppo di altri tempi, allo stesso modo identificava in modo sicuro un determinato autore dalla sua peculiare forma di occupare lo spazio, dal suo “segno”.
Direttore scientifico dal 1994 della rivista La Nuova Meta, cui imprime un nuovo corso: la rivista con lui si schiera apertamente altrove rispetto al mercato e alle sue regole per interrogarsi sui nodi operativi e concettuali legati al fare e al ragionare sull’arte, alla pratica artistica e a quella critica, sottraendosi alla logica mainstreaming che vede invece un progressivo incremento delle pubblicazioni d’arte improntate a farsi cassa di risonanza pubblicitaria di operazioni spesso molto ben confezionate e veicolate dalla comunicazione, ma di scarso interesse culturale. Molte le alleanze con gli artisti, con i critici, tra cui voglio ricordare in particolare Luigi Sansone, e con i galleristi (dal 2014 con continuità ha curato la programmazione delle mostre dello Studio Masiero a Milano) con cui ha lavorato ma anche collezionato numerosi screzi, perché Claudio non ha mai dismesso l’esercizio dell’intelligenza critica e la pratica del dubbio, supportati da un’onestà quasi sfrontata, effetto collaterale di una radicale postura etica; in poche parole, non è stato mai neppure sfiorato dalla tentazione di compiere delle scelte di tipo opportunistico.
Sulla base di un’analisi stringente degli oggetti dei suoi studi egli avanzava le sue considerazioni che andavano alla ricerca di quel quid proprio di ogni “stile”, mentre restituiva le sue visioni, la lettura delle opere e del fare degli artisti attraverso una scrittura densa e precisa, capace di volare.
Ma non era soltanto uno studioso libero e appassionato, era un uomo integro. Intellettuale di rara sensibilità e di grande cultura, vedeva il mondo con uno spirito sagace e a volte perfino beffardo. Era un epicureo: amava il cibo, il vino e le donne con un’esuberanza speciale. Era un amico intelligente e generoso e la sua morte priva molti di noi di un fondamentale patrimonio di scambi intellettuali e umani.
L’insieme delle sue carte, dei suoi studi e dei suoi dattiloscritti, editi e inediti, con buona probabilità verrà custodita presso l’Accademia di Brera, che è già depositaria dell’archivio Guido Ballo e di quello di Dario Trento che di Claudio fu amico e sodale sin dai tempi dall’università a Bologna. A Brera Claudio fu professore di storia dell’arte contemporanea dal 1985 al 2000 e per più di vent’anni svolse il ruolo di direttore e curatore delle mostre di opere su carta che venivano allestite in biblioteca, atte a valorizzare il patrimonio braidense contemporaneo.
Nella speranza che il suo archivio sia presto consultabile affinché i giovani studiosi si nutrano del suo pensiero mai allineato, mai banale e molto profondo, traendo esempio dal suo metodo così implicato nel fare e nell’ascolto degli artisti, l’indicazione più feconda che ci resta consiste proprio in quell’autonomia di pensiero esemplare, perché Claudio seguiva traiettorie suggerite dalla sua capacità intuitiva mentre disertava i sentieri segnati. Ed era anche un ottimo cuoco.