Giorgio Battistelli, complice il libretto di Ian Burton, mette in musica i mali di cui è afflitto il pianeta. Dal surriscaldamento globale all’inquinamento
Il titolo è azzeccatissimo. CO2 di Giorgio Battistelli (libretto di Ian Burton, regia di Robert Carsen) andato di scena alla Scala sabato 16 in prima mondiale, è un’opera costruita sulle contrapposizioni.
Esattamente come l’anidride carbonica: molecola chimica dalla doppia faccia, responsabile del surriscaldamento globale e nel contempo elemento indispensabile per tutti i processi vitali. In breve, CO2 è metafora perfetta delle contraddizioni che caratterizzano il mondo globalizzato nel quale viviamo.
Contrasti che traspaiono in ognuno dei nove quadri (incorniciati da prologo ed epilogo) che compongono questo “polittico ecologico”, privo di un substrato narrativo anche se in realtà l’eroina c’è. «Verdi» afferma Carsen «diceva della Traviata: “faccio un soggetto dell’epoca”. Noi con CO2 abbiamo fatto lo stesso: la nostra Terra è un’eroina malata esattamente come Violetta».
E non a caso il momento clou dell’opera è l’entrata in scena di lei, Gaia, l’impersonificazione del nostro amato pianeta (interpretata dalla sicura Jennifer Johnston). “Io do e gli uomini prendono, e bruciano e avvelenano e distruggono” urla contro l’uomo ormai in prossimità dell’epilogo. L’apocalisse non riguarderà, però, lei ma l’uomo: seguendo l’ipotesi “Gaia” di James Lovelock datata 1979, Gaia è viva e sa autoregolarsi. Il surriscaldamento globale ammazzerà noi, non lei.
Si delinea, quindi, uno scenario universale e non è un caso che l’opera si apra al plurilinguismo: l’inglese, come lingua base della globalizzazione, affiancato dal sanscrito, latino, greco antico, arabo, cinese etc.
L’orchestra della Scala, ottimamente diretta dal giovane Cornelius Meister, guida l’ascoltatore all’interno di un tessuto sonoro eterogeneo in stile e orchestrazione ma non per questo incoerente. Ogni quadro è indipendente ma allo stesso tempo connesso per associazioni al successivo e basato sui medesimi processi armonico-melodici battistelliani.
La partitura presenta una tessitura musicale fondata su moduli ripetitivi: scale e intervalli particolari (sopra tutti quello di tritono e di quinta) che vanno, come dice lo stesso Battistelli, a formare «una costellazione musicale di rifrazioni armoniche» sostenute da un uso copioso delle percussioni.
Il gigantesco schermo che domina il palco, desktop di un pc ma anche finestra su mondi, ci porta all’interno di una conferenza sul cambiamento climatico. Le luci in sala sono ancora soffuse quando lo scienziato dal nome emblematico David Adamson (figlio di Adamo) inizia a spiegarci quali siano le minacce e le conseguenze a cui stiamo andando incontro. È lui il trait d’union dell’opera, la mente dalla quale scaturiscono gli squarci visionari che prendono forma sopra e dietro lo schermo, forze centrifughe che ci portano a spasso tra presente, passato e futuro, tra mito e realtà.
Diversissimi i personaggi che si susseguono in scena, ognuno portatore di elementi di riflessione sul nostro pianeta: dei, scienziati, arcangeli, uragani, viaggiatori, casalinghe, Adamo ed Eva, Gaia. Si parte dalla creazione del mondo per poi dar spazio alla riflessione sull’oggi fino a un’ipotetica apocalisse.
«Prima di cercare di capire che cosa l’uomo avesse fatto alla terra e al suo clima, era necessario che io dicessi qualcosa sugli splendori della creazione» precisa Burton.
I due miti scelti sono quelli del dio induista Shiva che danza sul mondo per bruciarlo e ricrearlo infinitamente dalle sue ceneri, e quello della cultura giudaico-cristiana del giardino dell’Eden: un Adamo ed Eva di colore, forse a ricordare l’origine dell’umanità dal continente nero, ammaliati da un Serpente androgino, interpretato dall’ottimo controtenore David DQ Lee.
E, come in un cortocircuito spazio-temporale, il mito si trasforma in realtà. La mela di Eva diventa quella di un supermercato dove prodighe casalinghe sono alle prese con la scelta di prodotti che, alla faccia del km zero, giungono dagli angoli più remoti della terra. Marcette beffarde alla Poulenc descrivono con sarcasmo l’incapacità dell’uomo di trovare soluzioni e di rinunciare al proprio stile di vita. Come soggetto individuale ma anche nelle politiche globali.
Il dibattito accesissimo tra i vari delegati alla Conferenza di Kyoto, enfatizzato dalla componente scenica dei fogli sventolati in aria, prende corpo dal ritmo incalzante dell’orchestra.
Protagonista aggiuntivo, in questo caso come in altri, il coro della Scala (con la partecipazione delle voci bianche) impegnato nel commento di ciò che avviene in scena, come nel teatro classico. I momenti a cappella sono i più suggestivi: la baraonda di lingue che non trovano un accordo sui contenuti trova una coerenza e un’organizzazione in un crogiuolo di emissioni vocali diversissime (sprechgesang, a bocca chiusa, inspirato..) legate alla pulsazione musicale.
Riuscitissimo registicamente il quadro ambientato all’aeroporto dove turisti bloccati in un terminal a causa di eventi climatici sfavorevoli si lamentano a più non posso. La situazione di movimento si trasforma durante gli annunci in uno statico scatto fotografico, nel quale trovano riposo anche la musica e i dati che scorrono sulla cornice dello schermo (flussi annuali di viaggiatori negli aeroporti, quantità di combustibile utilizzato nel mondo..).
Tema dell’impotenza umana di fronte all’evento naturale che si esplicita totalmente attraverso la danza degli uragani. All’interno di un meraviglioso scenario da “tempesta perfetta”, annunciati con i nomi più bizzarri, entrano uno a uno sul palco andando a creare un vortice di linee sempre più complesso fino alla burla inattesa: una passerella in stile settimana della moda.
E l’epilogo? Tutto questo a cosa porta? Gli scatti sconvolgenti del fotografo canadese Edward Burtynsky fanno da cornice a un’ipotetica apocalisse. Adamson, Renzo Tramaglino del XXI secolo, evolve dal dilemma liberal-umanistico dello scienziato a una posizione più contemplativa, rassegnata, quasi mistica. “Se questo non è il mio pianeta di chi è? Se questa non è la mia responsabilità di chi è? Se sono io la causa non sono anche la cura?”
Un libretto, quello di Burton, necessariamente dall’impronta morale ma che rischia in alcuni punti di sfociare nel moralismo.