“Dove si disperde, infine spento, il canto della Morte?” è il nuovo brano per soprano e orchestra che la compositrice romana presenta stasera all’Auditorium di Milano. Una ventina di versi tratti dalle Coefore di Eschilo per interpretare il tempo in cui siamo immersi
Spesso è nel passato che, secondo Silvia Colasanti, si trovano le parole per interpretare il tempo in cui siamo immersi. Il problema del nostro presente è che “si trova a una distanza troppo ravvicinata perché ci parli in modo efficace di quanto stiamo vivendo”. Meglio rivolgersi a Eschilo allora, ad esempio alle Coefore: in una ventina di versi che Colasanti ha selezionato si scorge subito una drammaturgia capace di descrivere il nostro oggi in modo impressionante. Dove si disperde, infine spento, il canto della Morte? è il titolo del nuovo brano per soprano e orchestra che sarà presentato alla Verdi questa sera e domani, con direzione di Karen Kamensek e Valentina Varriale solista, debutto ufficiale di Silvia Colasanti come compositrice in residenza all’Auditorium di Milano.
Il titolo è anche la domanda con cui il brano si chiude.
Un interrogativo sul senso della vita: arriva alla fine di un percorso che mi sembra offra uno sguardo su diversi temi che ci riguardano da ormai molti mesi. Questo pezzo mi è stato commissionato subito dopo il primo lockdown con l’idea che, quando lo avremmo eseguito nel marzo del 2021, il Covid sarebbe stato un ricordo. Purtroppo non è andata così: la situazione che allora ci sembrava temporanea è rimasta, e abbiamo dovuto rimandare il concerto di due mesi. Ben presto ho capito, mentre lavoravo sul brano, che sarebbe stato prematuro parlare di rinascita.
Come ha scelto i versi della tragedia?
Ho riletto la traduzione di Pasolini delle Coefore e ho estrapolato alcuni frammenti del coro, ma in modo che fossero completamente decontestualizzati dalla vicenda. Sono parole che mi sembra raccontino qualcosa di profondo su quello che stiamo vivendo. Nella prima parte è come se la Terra si stia rivoltando contro l’uomo, partorendo “infinite cose orrende”. È una tematica ambientale che con il Covid è stata messa ancora di più al centro della nostra attenzione. Poi ci sono due versi che sono una sorta di lamento, una constatazione del destino di dolore dell’uomo, quasi dell’importanza del dolore, del suo valore per la nostra esistenza. Infine emerge una dicotomia tra speranza e disperazione che sfocia in una domanda finale sull’aspetto più tragico: la perdita e la morte, che fanno subito venire in mente le immagini delle bare che abbiamo visto in tutto il mondo.
Eppure ha parlato di speranza. Anche il suo Requiem, eseguito l’anno scorso proprio con l’Orchestra e il Coro della Verdi poche settimane prima che si scoprissero i primi casi di contagio in Italia, è in realtà un lavoro pieno di speranza. Possiamo aspettarci un percorso simile?
Ha fatto bene a chiamarlo percorso, nel senso che qualsiasi cosa io scriva, che sia un’opera o no, è pervasa da un’idea di teatralità. In questo caso si tratta di un’idea molto sintetica, perché stiamo parlando di un quarto d’ora di musica, ma è comunque una microscena teatrale, con una sorta di drammaturgia che parte dalle immagini violente del testo.
La prima indicazione in partitura è Inquieto.
Perché è il testo che lo suggerisce. Io mi rifaccio sempre all’indicazione di Monteverdi secondo cui la musica deve servire l’orazione: una frase che non va intesa in senso gerarchico, come a dire che il testo è più importante della musica. Il senso è che la struttura drammaturgico-musicale è già contenuta nel testo. E in questo caso, il testo ha una direzione molto chiara, perché parte da una visione cupa che a poco a poco si volge verso una speranza”
E musicalmente cosa avviene?
In tutto il lavoro si va costruendo un piccolissimo frammento, che all’inizio vive solo in orchestra, dove viene continuamente risucchiato da situazioni più dolorose, e che diventa vocale solo nelle domande finali. A quel punto, il canto va frammentandosi e alla fine resta la voce sola con l’arpa, poche percussioni oltre agli armonici degli archi che a poco a poco scompaiono nel silenzio, in una graduale rarefazione.
Anche all’inizio sembra ci sia un’atmosfera rarefatta: addirittura tre p come indicazione dinamica nella prima pagina della partitura.
Che però viene subito contrapposta a quattro f nella pagina successiva. Volevo un inizio fatto di contrasti magmatici. Al contrario le quattro p finali hanno una risonanza emotiva completamente diversa: come un lirismo che si dissolve.
La traduzione di Pasolini di cui si è servita rimanda a una interpretazione antropologica dell’Orestea, anzi dell’Orestiade, come il poeta preferiva chiamarla.
È talmente forte che non può non incidere nella lettura di queste tragedie. Ho chiesto di inserirla nel programma di sala, perché i versi li ho scelti usando questa traduzione. Ma ho voluto che il canto usasse le parole originali di Eschilo, in greco antico. Certo la comprensione mi interessa, ma mi interessa soprattutto il suono: la comprensione non avviene solo intellettualmente, ma anche emotivamente. E sono convinta che il greco antico arrivi al cuore ancora di più.
In effetti la sua musica si è spesso nutrita di archetipi.
La nostra identità musicale è interamente fondata sugli archetipi, che non ho alcuna intenzione di mettere da parte. Anzi credo che per scrivere musica oggi, dopo quello che abbiamo vissuto, sia fondamentale riattraversarli, questi archetipi, per conoscere noi stessi e la nostra identità culturale. Il lavoro sulla storia e sulle nostre radici è prima di tutto un lavoro di consapevolezza di sé.
Lei ha scelto dei versi del coro, ma la voce sarà una sola: come se le voci delle coefore si condensassero.
Giro questa considerazione al contrario: io sono partita dall’idea di una sola voce. Poi, per come è strutturata la tragedia greca, è sempre al coro che vengono affidate le riflessioni e i commenti su quello che accade. Così, nell’ottica di recuperare frammenti che fornissero uno sguardo sul nostro tempo, ho attinto non alle voci dei singoli personaggi ma al coro, con versi dalle atmosfere emotive molto distanti tra loro. Quindi la sfida per l’interprete è farsi carico di questo tipo di differenze. Ma in fondo sono proprio le situazioni sfaccettate quelle più autentiche: spesso la verità accoglie fratture e contraddizioni.
Con questo lavoro inizia ufficialmente la sua residenza alla Verdi. Cosa dobbiamo aspettarci nelle prossime stagioni?
L’idea è di lavorare a un nuovo pezzo ogni anno e di riprendere miei lavori precedenti. Per un compositore lo stimolo di una commissione è fondamentale, ma allo stesso tempo troppo spesso si dimentica l’importanza delle riprese: ai compositori si tende a chiedere sempre delle novità invece che rieseguire lavori che hanno comportato impegno e in cui magari ci si riconosce ancora.
Oltretutto il suo legame con la Verdi dura da molto tempo.
È un’istituzione con cui ho sempre lavorato benissimo perché si percepisce che tutti si sentono parte di un progetto artistico: dalla presidente (Ambra Redaelli ndr), al direttore artistico (Ruben Jais ndr), alle figure che ruotano intorno all’organizzazione, oltre naturalmente all’orchestra e al coro. Questa unità di intenti è fondamentale quando si vuole fare musica. Anzi io credo che si faccia musica soprattutto per questo motivo, per partecipare tutti insieme a un rito laico.