Andrèe Ruth Shammah porta in scena al Parenti Coltelli nelle galline, un testo ruvido e denso che usa la metafora più concreta, la terra, per dire la parola, solo apparentemente impalpabile
Odore di terra, mossa, grassa, sentore ruvido della tela dei sacchi e degli abiti da lavoro, il fiato e la fisicità degli animali, odore di terra, mossa, grassa, e foglie morte.
Questo si deve avvertire, appena immersi dentro Coltelli nelle galline, e così non può esistere una scena come ce la si aspetta e scompare anche lo stesso Teatro Franco Parenti, per gettare lo spettatore dentro uno spazio chiuso e sanguigno dove l’artificio della scena vuol essere inghiottito, anche con la forza se occorre, da un frammento di realtà che incomba sullo spettatore senza lasciargli uno spazio di separazione o un simulacro di filtro.
La realtà contadina di un passato sospeso meno lontano di quel che si vuol credere in questo spicchio di centro città, dove i ritmi e i modi sono quelli della terra, e dalla terra viene la sola lingua che si sa parlare. E si articola in suoni e gesti ossificati, ruvidi e grezzi, tra esseri umani che si pensano e si agiscono come funzioni di un ciclo, rispondendo a pulsioni necessarie e inevitabili piuttosto che a desideri.
Così trascorre le sue giornate William, il pony, che tributa in quel soprannome un evocativo gioco di rimandi d’ironia greve alle sue passioni per le giovani “puledre” ma soprattutto attraverso di esso si identifica nel suo doppio animale. Basterebbe forse questo a rendere l’idea del contesto, basterebbe una donna che – per converso – non ha nome ma solo corpo, oggetto condiscendente della sola quotidianità che conosce.
Quella del villaggio e del ritmo di ogni giorno, dove chi sta fuori, come il mugnaio Gilbert, è l’ombra e l’incubo dell’altro, assassino per il solo fatto di esistere. L’altro che porta con sé il solo strumento capace di essere portatore di una spaccatura nel ripetersi sempre uguale. Una penna. È intorno alla penna, alla lingua, alla parola e non alla figura che si articola quel che accade in scena. È intorno all’oggetto che la fascinazione prende il posto della paura. L’uomo, incontrato con timore un giorno in cui il marito le concede di uscire dalla gabbia calda in cui è in cattività (in cui essa stessa si è rinchiusa), non è che, a sua volta, un pretesto.
Anche prima di recarsi dal mugnaio per macinare il proprio grano la donna sta cercando, negli interstizi del suo vissuto, di crearsi una propria parola. È una spigolosa e acuta metafora della narrazione quella che la donna muove, illudendo di venirne mossa. I quasi nulli strumenti che possiede, l’assenza di consapevolezza di un’esistenza fuori dalle tre stanze in cui vive non sono limitate a sufficienza da impedirle di voler – di nuovo, istintivamente – costruire un proprio racconto.
Così, nell’affascinante e riuscitissima trovata registica che si avvale della scenografia affascinante di Margherita Palli, è la donna stessa a collocarsi, in scala ridotta, dentro a modellini di reale che, in una frazione di secondo, si estendono fino a inglobarla e a farsi uno con quel che vede e vive, in un fondale quasi neutro che a sua volta serve a diventare lo strumento dell’osmosi compiuta tra immaginato e concreto.
E allora forse la storia di David Harrower, coi suoi tagli di luce e le sue musiche ossessive, può essere raccontata come quella di una coppia e di un mugnaio, di vite e morti, di una realtà chiusa ostinata a non conoscere il fuori, ma forse più di ogni altra cosa è la storia di una donna che cerca – e non necessariamente perché un uomo gliela spiega, anche se lo spettatore magari preferisce leggerlo così – di mettere i nomi dentro alle cose, come si mettono i coltelli dentro alle galline.
Una donna consumata dall’ossessione di trovare il modo di dire le cose, perché – lo insegna anche la tradizione ebraica – è dare i nomi alle cose che le fa esistere. Per gettare lo sguardo oltre l’ultimo campo, quello dove il concepibile finisce e inizia il buio, si deve passare attraverso la conquista delle parole per poterlo raccontare.
È un procedere per strappi e giustapposizioni di opposti apparenti, questo lavoro, una scelta originale e coraggiosa, che nella sua spigolosità può apparire lontano da Andrée Ruth Shammah che lo ha scelto per sé, ma come si è visto forse non lo è del tutto, a volerne ragionare in termini di parole. Un azzardo che paga, va detto, per acume registico e efficacia visuale delle soluzioni, ma anche nelle scelte degli interpreti. Se Maurizio Donadoni e Pietro Micci sono grezzo l’uno e insondabile l’altro quanto il loro personaggio chiede, Eva Riccobono riesce nel – difficilissimo – compito di essere diafana e carnale insieme, sanguigna e distante contemporaneamente.
Per non far risultare non credibile un ruolo che si regge su una inconsapevolezza, sull’assenza di ogni artificio e stampella scenica, ci voleva una donna che attrice si è trovata quasi per caso.
Ne emerge una messa in scena angosciosa, profonda, indubitabilmente complessa che sguscia fuori da qualsiasi giudizio lineare, trasmettendo allo spettatore sentimenti contraddittori e temperature emotive che coesistono senza elidersi. Una messe densissima e senza dubbio sorprendente di segni che spetta a chi osserva cogliere e decodificare.
Del resto, non sono che segni, anche le parole stesse? E anche se il numero dei segni è finito, è potenzialmente indeterminata la quantità di lingue che ne possono nascere, di messaggi che ne possono essere trasmessi. Resta, al di sopra di tutto, la fascinazione dell’occasione della scoperta. Come quando ci si trova capaci di narrare.
Immagine di copertina © Tommaso Le Pera