“Come sugli alberi le foglie” è l’ambizioso e riuscito romanzo corale che Gianni Biondillo ha dedicato ai primi vent’anni del Novecento, alla nascita del futurismo, alla frenesia bellicistica e all’ubriacatura collettiva che porta la meglio gioventù a infilarsi nella tagliola della prima guerra mondiale
«Il bambino è seduto in fondo al negozio. Ha le spalle appoggiate al muro e una risma di fogli sulle ginocchia nude. Sembra più piccolo della sua età, quasi gracile, ma già s’intuisce che il suo corpo sta per germogliare, vigoroso. Scarabocchia concentrato, ogni tanto arrotola un ricciolo ramato attorno al portamine. Sono i momenti dove dubita del suo segno, o dove la sua mente si perde. Poi riprende a disegnare, di slancio. La punta della lingua fa capolino dalle labbra, in basso a sinistra.
Il padre è preso dagli ultimi ritocchi, neppure lo guarda. Sa che non dovrebbe tenere il figlio messo così, come un randagio, mentre lavora. Di solito non succede. Ma oggi fa un’eccezione. Il tempo di finire con il cliente e poi chiuderà il negozio. Sono mesi che il figlio aspetta questo giorno, e una promessa è una promessa».
Comincia così Come sugli alberi le foglie (Guanda, pp. 352), ambizioso e riuscito romanzo corale che Gianni Biondillo, architetto e autore di noir tra i nostri maggiori, ha dedicato stavolta ai primi vent’anni del Novecento, alla nascita del futurismo, alla frenesia bellicistica (“La guerra sola igiene del mondo”) e all’ubriacatura collettiva che porta la meglio gioventù a infilarsi nella tagliola della prima guerra mondiale.
Como, 1899. Il negozio è quello di un barbiere e il bambino quasi gracile che disegna, destinato a diventare un ragazzone alto alto e pudico e tenero, che piace alle donne con quei capelli fulvi da Rosso Malpelo e quell’aria svagata e appassionata insieme, è figlio del barbiere. «Il padre sorride. Ha altri due figli, una femmina, più grande, e un maschio, più piccolo. Ma nessuno lo diverte come questo. Sarà che è un figlio di mezzo, sarà il suo animo candido. Buono come il pane. E anche una sua naturale stravaganza. Magari è vero che è tutta colpa dei ricci ramati».
Il figlio di mezzo del barbiere, undici anni, attende che il padre chiuda la bottega, dopo avergli domato le chiome ribelli, per portarlo alle celebrazioni voltiane, la prima Esposizione che si tiene dopo l’Unità d’Italia. Ci sono due pile monumentali, ascensori e tram: elettrici, l’esposizione è il trionfo dell’elettricità. E il ragazzo che disegna è impaziente di vedere tutto questo futuro.
Il figlio di mezzo del barbiere si chiama Antonio Sant’Elia, morirà ventottenne nella prima guerra mondiale, giusto cent’anni fa, a Quota 85 nei pressi di Monfalcone, colpito alla testa da una sventagliata di mitragliatrice mentre guida i suoi all’assalto di una trincea austriaca.
Sarà architetto irregolare, arrivato al mestiere dopo un diploma di capomastro preso nel 1906 alla Scuola Arti e Mestieri Giacomelli e dopo anni spesi a completare il Canale Villoresi e a fare il disegnatore tecnico per il Comune di Milano, dopo un’iscrizione a Brera e un diploma da “professore di disegno architettonico” all’Accademia di Belle Arti di Bologna.
Sarà architetto di pochissime realizzazioni: un cottage di campagna in stile floreale viennese, Villa Elisi, a Brunate sopra Como; la tomba di famiglia dei Caprotti (sì, proprio i Caprotti del futuro fondatore della Esselunga); progetti di villini, banche, facciate di chiese e cimiteri presentati ai concorsi di architettura e sempre accolti con menzioni onorevoli ma mai incoronati dall’alloro della vittoria. Un cimitero di guerra, quello per la Brigata Arezzo nei pressi di Monfalcone (oggi al suo posto c’è un parcheggio), concluso poche settimane prima di essere falciato dalla mitraglia di Cecco Beppe, sarà la sua ultima realizzazione.
Poche opere e tanti disegni bellissimi, da restare a bocca aperta anche oggi, un secolo dopo, visionari e impregnati di sentimento del progresso, a prefigurare la “città nuova”, che faranno di lui, Antonio Sant’Elia, l’unico vero genio del futurismo italiano assieme a Umberto Boccioni e a Luigi Russolo precursore della musica concreta con il suo intonarumori.
Della “città nuova” che riverserà nei suoi disegni, nel romanzo di Biondillo il diciottenne Antonio parla animato nel 1906 a Milano, durante una visita all’Expo di allora, con un signore dai folti mustacchi che prende appunti. Gli spiega che fra cent’anni il mondo sarà fatto di metropoli enormi, treni sopraelevati o sotterranei, grattacieli, città sottomarine, macchine volanti e viaggi verso Marte. «La città ai suoi piedi sembrava deformarsi. Ebbe come un’illuminazione. La città del futuro non era solo una città fatta di case. Era una città fatta di strade, ferrovie, itinerari. Un sistema linfatico che trasportava milioni di persone da una parte all’altra. Era una città dinamica».
Una “città che sale”, come quella dipinta dal futuro amico Boccioni. Il signore baffuto che gli offre un marsala si chiama Emilio Salgari, gira l’Expo alla ricerca di spunti per un romanzo che uscirà un anno più tardi, Le meraviglie del 2000.
Non è l’unico incontro importante che Antonio Sant’Elia avrà modo di fare nel corso della narrazione. Nel 1911 per esempio gli capita di urtare inavvertitamente, a Torino, un altro Antonio “dal corpo offeso e dall’espressione furba, una massa di ricci in testa”, ed è ovviamente quel Gramsci che, qualche anno dopo, darà vita al giornale La città futura. «L’epoca della grande industria e delle nuove metropoli ha bisogno di nuove forme. E spesso occorre prima distruggere quelle vecchie» gli dice Sant’Elia. E Gramsci, di rimando: «I futuristi hanno ragione… Bisogna solo capire se sapranno fare la rivoluzione o se… appena sgridati dal professore torneranno in classe come bravi scolaretti!»
Ecco, c’è anche questo irrompere di personaggi storici sotto la luce dei riflettori, un po’ alla Forrest Gump, in come Sugli alberi le foglie. Non è una critica, Dumas faceva le stesse cose nel ciclo dei moschettieri. Nel corso delle trecento e passa pagine del libro, ne ho contati circa una settantina: la cerchia dei futuristi e dei vociani (colorita e divertente la rissa alle Giubbe Rosse di Firenze nel 1912, con Boccioni che prende a sberle Soffici colpevole di una critica urticante, tavolini rovesciati, Papini che perde gli occhiali e Prezzolini che addenta il cranio pelato di Marinetti), ma anche gli irredentisti trentini (bellissimo il capitolo come “a parte” sull’impiccagione di Cesare Battisti, con Karl Kraus che commenta indignato l’orrore di quell’esecuzione), il vogatore Giuseppe Sinigaglia e la medium Eusapia Palladino, Carlo Emilio Gadda apostrofato da Sant’Elia in trincea, Mussolini che in guerra spara contro due soldati inermi, Alcide De Gasperi e Giovanni Giolitti, Musil che contempla il volo di un biplano, Giorgio Morandi e Osvaldo Lucini che a Bologna si congratulano con Sant’Elia fresco di diploma, Mata Hari di passaggio a Milano, Giacomo Puccini che si affaccia sulla scena della Fanciulla del West credendo che lo portino in trionfo mentre in realtà Marinetti & c. stanno facendo gazzarra contro l’Austria, Leda Rafanelli che è stata amante di Carlo Carrà (anche del giovane Mussolini che ne vantava alcune tecniche amatorie, ma questo Biondillo non lo dice), D’Annunzio al quale il giovanetto Giovanni Ansaldo dà un buffetto sulla crapa facendolo trasalire, Stravinskij che beve rosolio con Prokofiev e Djagilev nella casa di Marinetti in via Senato, Emilio Lussu che al fronte parla con Sant’Elia di quel massacro inutile, il futuro architetto Giuseppe Pagano ancora irredento e ancora Pogatschnig mentre fa il fattorino e il correttore di bozze nel neonato Popolo d’Italia di Mussolini.
Sì, c’è il rischio del sovraffollamento nel romanzo, ma la regia di Biondillo tiene sempre gli occhi addosso ad Antonio Sant’Elia e scandisce la narrazione alternando il prima e il dopo. Prima: i beati anni giovanili del tumulto e della rivolta contro il chiaro di luna nei Navigli, dell’a morte musei e accademie, del «movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno», come recita il manifesto futurista del 1909. E dopo: la guerra agognata che diventa l’incubo della trincea e degli assalti notturni. «La guerra era fatica, sudore, fango e merda. Altro che igiene del mondo», per dirla con Boccioni. Sant’Elia, secondo Biondillo, arriva alle medesime conclusioni: «La trincea – affermerà con dolorosa resipiscenza- questo budello paleolitico, è il luogo dell’incoscienza. Della bestialità, del caos. Il nemico siamo noi. Nessuno è davvero innocente in una trincea. E nessuna guerra sarà mai giusta».
Ecco, torniamo a Sant’Elia. Questo provinciale di genio trapiantato a Milano che appena può se ne ritorna a Como (nel 1914 è stato eletto consigliere comunale della città lariana nelle file socialiste, il quarto più votato di quella tornata elettorale, e dei socialisti apprezza il neutralismo), questo architetto in fieri che vive in un abbaino con un’alcova per letto e il pavimento cosparso di disegni che sbalordiranno Carlo Carrà (sarà proprio Carrà a presentarlo a Marinetti il quale gli farà stendere il manifesto dell’architettura futurista), questo spiantato che per portare le ragazze in balera ha fatto un accordo con un sarto, facendosi imprestare gli abiti in cambio, per così dire, di “pubblicità ambulante” alla sartoria, questo giovanotto poco mondano e per niente meccanico, questo convitato di pietra del salotto marinettiano, questo futurista riluttante, è il protagonista perfetto di questo romanzo e di quella stagione, perché incarna tutte le contraddizioni della nostra prima avanguardia storica: un progressismo sbandato e istintivo, che si ribella all’asfittico clima culturale di inizio secolo (socialista è anche Boccioni, mentre Carrà è, con altri, anarchico) ma finisce per diventare docile strumento del burattinaio Marinetti, delle sue pulsioni nazionalistiche, della sua “voglia di nemici”. In una parola, del suo protofascismo.
Non c’è fascismo, ancora, in quegli anni tumultuosi in cui le carte e gli schieramenti si rimescolano, in cui la guerra che si va a combattere è tante cose contraddittorie. Un’avventura un po’ goliardica e un po’ esibizionistica, Biondillo rende bene quel clima nelle pagine di dialogo in cui Marinetti e Russolo danno le loro impressioni “estetiche” sui cannoni che tuonano e sulle granate che esplodono (i futuristi ottengono di venire arruolati in uno speciale e assai poco disciplinato battaglione di volontari ciclisti e motociclisti che verrà sciolto dopo qualche mese). L’ultima guerra dell’Ottocento per riunificare l’Italia e combattere le tirannidi degli imperi centrali (è la guerra dei socialisti, ma anche dei Salvemini e dei Lussu). E, al tempo stesso, l’incubatore di tutti i mostri e di tutti gli orrori del secolo breve.
In quel 1916 in cui muoiono Sant’Elia e, sbalzato da cavallo, Boccioni, la lieta avventura è già orrore e il primo futurismo si sta dissolvendo perché i suoi promotori cadono sul campo dell’onore o passano sotto altre bandiere, sarà il caso di Carrà e Sironi.
Marinetti, il profeta della sovversione, artista discutibile e abilissimo uomo di marketing, si direbbe oggi («Bisogna che gli uomini giuochino d’un tratto la loro vita» cita a memoria Carrà, enfatico. «Bisogna che l’anima lanci il corpo in fiamme…». Prende fiato. «Bisogna, capisci? Bisogna lanciarsi… e lui ci ha lanciati tutti»), l’uomo che vuole assassinare il passato ma veste e vive come un D’Annunzio minore, il cantore della velocità che finisce in un fosso e rischia di morire annegato la prima e unica volta in cui guida un’automobile, di lì a qualche anno sarà tra i fondatori del fascismo. Sarà accademico d’Italia e blandissimo e tollerato eccentrico, andrà in giro a fare conferenze sull’ottimismo di Leopardi, si arruolerà già vecchio come volontario in Etiopia e in Russia e finirà i suoi giorni, lui così abituato a fare il puparo, come marionetta di Salò.
Sant’Elia invece, il ragazzone alto alto e appassionato, che in guerra è giusto e solidale con i suoi soldati e rischia la pelle per recuperarne i corpi quando cadono sotto la palla nemica, diventerà uno degli ispiratori della nuova architettura. In parte del razionalismo, ma il regime gli preferirà le pomposità imperiali di Piacentini, ma soprattutto di Le Corbusier e di De Stijl. Con il suo sogno di “città nuova” che coniughi architettura e urbanistica, con le sue case piramidali, i suoi grattacieli con gli ascensori all’esterno, gli edifici interconnessi, le sue stazioni con molti livelli e molte funzioni, anche aerostazioni, la sua purezza avveniristica, sarà l’ispiratore dei fondali di Metropolis di Fritz Lang (ma anche della città da incubo di Blade runner).
«Io sono un costruttore, nella distruzione non ci trovo nulla di creativo» gli fa dire Biondillo. Ci piace pensarlo così, in grado di riscattare la vitalità del futurismo dalle pesanti ipoteche con cui Marinetti e il fascismo lo avrebbero seppellito.