Il compromesso: dall 15 al 25 ottobre debutta in prima nazionale per la regia di Carmelo Rifici. Il testo,ripercorre un secolo di storia italiana
Per l’apertura della la stagione il palco del Teatro Filodrammatici ospita i neo diplomati dell’Accademia. Regista è Carmelo Rifici che torna a lavorare con Angela Dematté, già autrice del testo pluripremiato Avevo un bel pallone rosso. Affrontano l’oggi con intensità, ponendo domande dirette alle proprie radici, mostrando, nel testo e nella regia, un’urgenza profonda.
“Tutto il mio folle amore lo soffia il cielo, lo soffia il celo…”: sul palco chiuso come una scatola, uno di fianco all’altro, gli attori cantano le parole struggenti di Modugno. Lo spazio è poco – dietro di loro un muro. Didascalie lette ad alta voce ci informano che siamo in trincea, Prima Guerra Mondiale: uomini non ancora fatti, cittadini non ancora italiani, affrontano la prima linea pieni di paura, coraggio e ideali: un fervente cattolico e un socialista, genuini, discutono e fan sorridere, ricordano quasi Don Camillo e Peppone. Un ragazzo spaurito non riesce a sparare, lascia un compagno in bocca alla morte. L’esercito è quello austriaco, in un Trentino che di lì a poco sarebbe stato annesso all’Italia.
Gli stessi volti tornano ciclicamente in un racconto lungo cent’anni di solitudine italiana, e portano avanti la storia di due famiglie: una di lavoratori, l’altra di padroni – ed è difficile non pensare a Novecento di Bertolucci. Li ritroveremo adulti, in un’Italia che si fa Repubblica. I loro figli vivranno gli Anni Sessanta e poi guarderanno cadere il Muro di Berlino. I loro nipoti tremeranno in una stanza della Diaz, nella Genova del 2001. Fino ad arrivare ad oggi, al presente 2015.
Si indaga la Storia, come a volerle chieder conto del presente, come a volersi ritrovare. Si indaga il compromesso, tra visioni del mondo e del nostro Paese, in una scenografia che si apre come una scatola ed è una stanza bianca come la balena della DC, mentre echeggia a più riprese il nome Alcide, che diventa quasi mitologico, fondatore – Alcide De Gasperi, che in quel 1915 apparteneva all’Impero Austroungarico come quei giovani soldati appesi al filo della trincea.
Nel compromesso si fronteggiano identità, ed è quell’identità che si va cercando in questo viaggio dal 1915 al 2015 – un’identità che è folle amore, amore per ciò in cui si crede, per ciò che si è, per il cambiamento cui va incontro il presente ad ogni istante. Questo mutare ininterrotto, questo farsi della Storia, è forse il cielo che soffia il nostro fragile essere umani? Il vento ha soffiato tanto forte da aver reso urgente, appunto, la domanda sull’identità, su ciò in cui crediamo – sembra così difficile oggi mettere a fuoco il mondo e se stessi e questo nostro paese che però ha una Passato con cui confrontarsi. E questo Passato dev’essere nostro interlocutore per quanto una cesura l’abbia reso, negli ultimi tempi, terribilmente lontano.
La narrazione è fatta di episodi a un passo dalla Storia, vissuta e guardata da dietro la trincea, dalla televisione, da un tavolo intorno a cui discutere, da un bar dove s’incontrano buoni cattolici, furbi politicanti, impetuose donne appena libere e già comuniste. Ma è una narrazione a tratti spezzata dalle incursioni degli attori che si svestono dei loro (mutevoli) ruoli per spiegare, ricostruire, raccapezzarsi in questo complesso formarsi e trasformarsi di un paese e dei suoi cittadini.
Il canto finale è lo straziante Lamento per la morte di Pasolini, le voci giovani degli attori si mescolano nell’orecchio a quella di Giovanna Marini, che coi suoi accordi ha messo in musica i momenti più intensi della Storia italiana. “Leva le gambe tue da questo regno”, dicono poco prima che arrivi il momento di lasciare la sala. I neo diplomati dell’Accademia Filodrammatici stupiscono e riscaldano per la freschezza e pienezza del loro coinvolgimento, per lo sguardo che accoglie domande vere, una vera ricerca, un vero percorso in un Passato che non è poi così lontanto. Gridano, infine, di chi “non può, non può, può più parlare, può più parlare ”.
(Foto di Gabriele Ciavarra)