Ultima opera pre-estiva della stagione 2020-2021 ma vera prima del “dopo”, le Nozze di Figaro diretta alla Scala da Daniel Harding coincide con una serie di importanti novità volte a riportare il pubblico in sala
Settecentocinquanta per quattro fanno tremila. E tremila spettatori sono un pubblico quasi da prima del diluvio anche per la Scala. Le Nozze di Figaro di Mozart firmate Strehler, in quattro recite (domani, giovedì 24, l’anteprima Under 30, poi sabato 26, martedì 29 e giovedì 1 luglio), sono l’ultima opera pre-estiva della monca Stagione 2020-2021 ma la vera prima del “dopo”, benedetta dalle nuove regole che aumentano da 500 posti a 750 (precisamente 760) la capienza della sala del Piermarini tornata platea.
Una serie di coincidenze in forma di numeri eleva queste Nozze storiche al quadrato, forse al cubo. Ma andiamo con ordine.
Ventuno. Prima coincidenza: lunedì 21 era la Festa della Musica e la Scala è riuscita a impiattare on line la prelibatezza rossiniana che doveva essere servita live il 25 maggio, se l’ennesimo scherzo da virus non l’avesse nascosta dietro la schiena e riportata in cucina. L’Italiana in Algeri è passata l’altrorieri in streaming nello spettacolo ancora morbido di Ponnelle, che ha quasi cinquant’anni (aprì la Stagione 1973-74, caso unico, più che raro, di Sant’Ambrogio buffo), tornato croccante grazie alla bacchetta di Ottavio Dantone, con il debutto della trentenne Cecilia Molinari, Isabella, già promessa Rosina al Barbiere che Chailly dirigerà tra settembre e ottobre in uno spettacolo tutto nuovo di Leo Muscato. Per quanto a distanza, speriamo l’ultima, L’Italiana (che aprirà il mini-festival Rossini d’autunno il 10, 13, 16 e 18 settembre) era il miglior biglietto d’auguri per il giorno in cui s’è cominciato a vendere biglietti veri: lunedì 21 si è aperta la Campagna abbonamenti 2021-22, con qualche novità che “viene incontro” al pubblico.
Quattro. Prima novità: i turni di abbonamento scendono da cinque a quattro. E va bene. “Il turno E risultava sguarnito e l’abbiamo eliminato”, confessa il sovrintendente Dominique Meyer. Per la verità era sguarnito da diversi anni, ma non era mai maturato il coraggio di restringere alla base il pacchetto abbonamenti che garantisce denaro fresco e in anticipo alle finanze della Fondazione.
Seconda novità: meno posti ad alto prezzo, per rimpolpare la fascia più abbordabile. Anche questo era nell’aria dai tempi di Lissner, che già pensava di sacrificare il quinto turno in favore di una maggiore flessibilità del botteghino. Uno studio approfondito dei flussi di riempimento sala ha confortato la decisione. “Troppi mille posti in prima categoria – confessa Meyer -, mentre la seconda era troppo piccola”. E questo va bene, molto bene, bilanci permettendo; soprattutto alla luce di un altro fenomeno che la sovrintendenza Pereira non aveva capito: in un teatro italiano, milanese, con forte radicamento negli abbonati del centro storico (i Cap 20121 e 20122, li chiamava Muti), le formule last minute che consentono di acquistare una superpoltrona da 300 euro al prezzo scontato di sessanta, non piacciono molto a chi ha sborsato migliaia di euro per garantirsela già prima che la stagione sia iniziata. I modelli aggressivi di marketing su cui lavorano Covent Garden e Opéra, qui rischiano di incrinare un patto col pubblico che ha nell’abbonato il suo pilastro. Almeno fino a oggi.
Terza novità: prezzo molto differenziato per i posti arretrati dei palchi sguinci, dai quali vedere, oltre che sentire, è un privilegio da fachiro. Anche questo rimedia una stortura che, pur se avvertiti dalla simulazione grafica della “vista palcoscenico” attivabile on line all’atto d’acquisto, generava molti malumori; soprattutto nel pubblico straniero che non sa bene, o non vuole accettare, che un teatro all’italiana sia un ferro di cavallo fortemente rastremato in boccascena. Mettiamoci il cuore in pace: la Scala è fatta così, come il San Carlo e tanti gioielli nostri, è più antico delle Grand Opéra o delle Staatsoper a loggiati aperti, che di problemi di vista non soffrono.
Ultimo e non ultimo: l’adulto che acquista un biglietto ad alto prezzo può comprarne uno in palco a 15 o 10 euro per un minore. E anche questa, come la politica Under 30 e lo choc dell’anteprima del 4 dicembre, è una formula entrata nelle cose di tutti i giorni con Lissner.
Cento, trenta, sessantotto. Non sono i centimetri che Figaro misura per “la più comoda stanza del palazzo”. Sono quelli che rendono Le Nozze di Figaro tra poco in scena una multifoglie da record.
Il 14 agosto saranno cento anni dal giorno in cui Giorgio Strehler nacque, nel 1921, a Trieste, crocevia di lingue e culture, lui e lei. Al compleanno sono dedicate Le Nozze di Figaro che tornano oggi in scena senza essersene mai andate: per 68 recite hanno segnato trent’anni di Scala. Sono nate a Milano nel 1981 ma su un primo pensiero parigino del 1972; vanno dunque per i quaranta.
E c’è qualcosa di storico anche nel fatto che a prenderle in mano sia Daniel Harding, direttore che in Scala ha una seconda se non prima casa, per un’altra somma di coincidenze.
Capitano coraggioso. Harding fu il pilota che accettò di far decollare la stagione 2005-2006, la prima del primo sovrintendente straniero. Nei cassetti della Scala spazzata dalla bufera Muti-Fontana-Meli non c’era una stagione pronta e nemmeno un sette dicembre, che fu letteralmente inventato in meno di sei mesi: Mozart, Idomeneo, in uno spettacolo dello scomparso Luc Bondy, tenuto musicalmente con sicurezza ed eleganza che fecero perfino ravvedere un acidissimo critico: “Mi ero sbagliato, è un direttore”.
Ma c’era già un Mozart alle origini del cursus honorum di Harding, quando Claudio Abbado credette in lui giovanissimo e gli cedette il podio di un Don Giovanni , nato ad Aix-en-Provence, in cui Peter Brook sfidava quasi il grado zero del teatro. Harding lo diresse al Piccolo nel dicembre del 1998, undici mesi dopo il Così fan tutte che Strehler non ebbe vita per finirlo e vederlo in scena, in gennaio.
Dopo Idomeneo, Harding non ha quasi mai mancato una stagione alla Scala: ha diretto 56 volte la Filarmonica, che con lui si accende quasi infallibilmente; ha rischiato titoli e toccato repertori a sorpresa, senza sussiego e odor di muffa, compresa un’antiretorica Salome di Strauss nel 2007, una raffinata Cavalleria, un plasticissimo Falstaff e una ripresa italiana di Fierrabras, opera che non per caso fu tra le grandi riscoperte romantiche di Claudio Abbado. Nemmeno l’Austria ne riconobbe la “schubertianità quasi insolente” (Mario Bortolotto) prima che il direttore musicale della Scala la svelasse anche alle orecchie più sorde.
Harding è anche stato servito bene da chi ha distribuito le carte, con un mazzo di belle voci per tenere giovani le Nozze di Strehler riprese da Marina Bianchi: il Figaro di Luca Micheletti, la Susanna di Rosa Feola, il Conte del ritrovato Simon Keenlyside, la Contessa di Julia Kleiter, il Cherubino di Svetlina Stoyanova.
Che dire? Les jeux sont faits.
In copertina: edizione storica delle Nozze con la regia di Giorgio Strehler, le scene di Ezio Frigerio e i costumi di Franca Squarciapino