Il duo Carsen (regia) e Antonini (direzione) centra il bersaglio al Piermarini con l’opera barocca di Antonio Cesti. Una regina dell’antico Egitto prende l’ascensore di un grattacielo del quartiere Isola cambia identità e diventa manager di successo nella Milano del 2024. Un’operazione da mettersi le dita nei capelli? Per niente. Nelle mani del regista canadese nulla si perde e tutto diventa credibile e coinvolgente. Antonini, autore di riletture che lasciano il segno, dirige scegliendo cantanti ben centrati nella messa in scena
In una macchina del tempo che si chiama teatro (alla Scala, nel caso), una regina dell’antico Egitto, Orontea, figlia di Tolomeo, che canta nell’italiano sublime del Seicento in musica, prende l’ascensore di un grattacielo del quartiere Isola, si sistema in un ufficio da sogno, con vista-spettacolo su dolomiti di cristallo con la punta e giardini verticali, cambia identità, diventa manager di successo e, in tailleur corto e tacco dodici, riscrive la sua storia, la rivive qui e ora: Milano, anno 2024.
Orontea ha le idee chiare, o almeno crede: niente Amore (forse amori sì), libertà va cercando, ma quando si trova davanti Alidoro, pittore bello e spiantato, l’idea vacilla, anzi si disfa. É colpo di fulmine, anzi di più.
Il consigliere (di amministrazione) Creonte l’avverte: una regina (dell’industria, della finanza, fate voi) non può permettersi un compagno non all’altezza; chissà chi è, da dove viene, che cosa vuole, a cosa punta. Attenta Orontea, ma l’amore fa quel che vuole, in tutti i sensi. Infatti Silandra, damigella di Orontea (leggi segretaria, amica, confidente) mette anche lei gli occhi addosso ad Alidoro e non ci pensa un minuto: chiude di brutto con Corindo, il fidanzato cui ha appena giurato amore eterno in un duetto appassionato, affonda con Alidoro in un divano in pelle nera, sempre nell’ufficio lassù in cielo, con un simil-Rothko appeso al muro, e consuma.
Orontea, ignara, è pazza di Alidoro; lo ha raccolto ferito da qualcuno che scopre con rabbia essere una vecchia amica che non vede da tempo, Giacinta, della quale – tanto per parità di genere – s’innamora Aristea. Niente di male, nell’Antico Egitto, nel Seicento italiano e nemmeno oggi; più strano e complicato è che Giacinta sia travestita da uomo, col nome di Ismero, e canti con voce di soprano, mentre Aristea ha i capelli bianchi, si dichiara madre di Alidoro e nell’originale del Seicento era un tenore a sua volta en travesti (qui è un contralto, Marcela Rahal, bravissima).
Alidoro, che ha la voce superba, l’intelligenza e il physique du rôle di un controtenore tra i più ammirevoli di oggi, Carlo Vistoli, sbanda incerto ma felice tra la ricca Orontea e l’erotica Silandra (Francesca Pia Vitale, soprano uscita dall’Accademia della Scala, incantevole, travolgente). Silandra chiede un ritratto ad Alidoro, che dovrebbe avere qualche problema con il figurativo, perché i molti quadri che compaiono in scena, ambientati in una galleria d’arte ultramoderna e chic, immaginiamo riferibili a lui, sono tutti astratti e molto macchia di colori, alla Emilio Vedova. Ma poco importa: la posa serve a far scoprire a Orontea la liaison, a farli maledire, a far fuggire Silandra in lacrime e svenire Alidoro, evidentemente affranto per aver perso l’occasione della vita. Tutto finito? Per niente: Orontea, ormai innamorata senza rimedio, non può vivere senza Alidoro, lo perdona, gli lascia tra le mani una lettera e un abito kitsch alla Elton John, d’oro, per dimostrargli che lo vuole accanto nel suo mondo altolocato. A questo punto tocca ad Alidoro rompere con Silandra, molto duro e poco puro: lui sta con la regina, ci mancherebbe altro. Ma la corte, il consigliere, il cda, l’impresa, la banca (rifate voi) di una manager fuori di testa non sanno che farsene. Anche Orontea è offesa e manda Alidoro dove sappiamo. Così il bello e impossibile si ritrova cacciato da tutte e due. Incostanza delle donne o fesseria degli uomini?
Silandra ci ripensa e si serve di Gelone, servo buffo – qui cameriere ubriacone e un po’ coglione (Luca Tittoto, perfetto) -, per recuperare Corindo e rimettersi con lui. Obiettivo raggiunto. Ma di Alidoro s’innamora anche Giacinta alias Ismero (Maria Nazarova, scattante), che per ingraziarselo gli regala una collana “grave d’oro e di gemme” ricevuta dalla vecchia Aristea nelle sue avances da terza età. Sorpresa: da dove viene quella collana preziosa? Dal marito defunto di Aristea, di professione corsaro (ladro, mafioso, pusher, evasore seriale, continuate con le traduzioni), che insieme a tanti tesori depredati le aveva scaricato tra le braccia anche un bel bambino, rapito, da lei amato e nutrito come un figlio. Al collo, l’infante portava quella collana che lo dichiara senza ombra di dubbio di nobili origini (diciamo ricco a sua insaputa). Chi è? Alidoro, naturalmente, che adesso può sposare Orontea “alla pari”.
Robert Carsen non sbaglia nemmeno questa volta. Sembra che questo adorabile regista di origini canadesi (importante), che da almeno trent’anni sfodera rivelazioni nel teatro di parola e di musica, non conosca l’errore. Catapultare L’Orontea di Antonio Cesti (1623-1669), opera “in pepli” datata 1656 nella Milano tecno-chic di oggi sembra un’operazione da mettersi le mani nei capelli. Certamente lo è per i sonnolenti abbonati di turno A della poltrona accanto, che dopo il secondo intervallo si domandavano: “Vuoi tornare a casa?”. Pazienza. Nella nuova trasposizione intelligente di Carsen, nella doppia scena girevole disegnata da Gideon Davey, abitata in perfetto stile fashion-week, il congegno frenetico e anche cervellotico di 400 anni fa acquista una forza comunicativa irresistibile. Nulla si perde e tutto si guadagna nella leggibilità di trame e psicologie che non sono del Seicento ma di sempre. In luoghi e abiti che sono nostri, tutto diventa più plausibile e contagioso. Il gioco di attrazioni e repulsioni si fa più stringente e riconoscibile, e anche l’originale miscela di serio e di buffo.
Carsen muove i cantanti-attori con i gesti della vita. Si riserva tocchi di ironia nel far sparire e apparire i personaggi fra sbattere di porte. Confeziona piccole citazioni come la scena in cui Corindo, appena tradito da Silandra, raccoglie le tracce del misfatto – abiti, calze, intimo, un cartone da pizza – come un commissario i corpi di reato. E corona tutto con un colpo di genio: nel finale, mentre la piccola orchestra suona in buca uno strumentale (forse di Cesti e forse dell’epoca), in scena rumoreggia una grande festa colorata e alcolica. Così il 1656 entra nella nostra vita, indissolubilmente, felicemente.
Non sbaglia nulla nemmeno Giovanni Antonini, musicista che ieri si diceva filologico e oggi storicamente informato (meglio), autore di riscoperte di autori rari e di riletture che stanno lasciando il segno su presunti noti, come Haydn. Ha selezionato una compagnia di cantanti ben centrati sullo stile (restano da citare Stéphanie d’Oustrac, Orontea esemplare; Mirco Palazzi, Creonte puntualissimo per carattere e intonazione; Hug Cutting, controtenore di qualità come Corindo, secondo “amoroso” dell’opera; Sara Blanch nei panni del secondo buffo, Tibrino). Ha raccolto un ensemble di musicisti della Scala che ci credono, plasmandoli “all’antica”, facendo correre il suono nello spazio difficile del Piermarini, modellando il fraseggio in precisa scioltezza. Anche per lui si può citare un momento rivelatore: quando Alidoro è a terra senza sensi, Antonini ricama un lamento strumentale delicatissimo, quasi bisbigliato, che introduce l’aria clou di Orontea, celebre, bellissima e ben cantata da Stéphanie d’Oustrac.
Rimangono due repliche: oggi, mercoledì 2, e sabato 5 ottobre. E se non ho i soldi per andare alla Scala? Nulla è perduto: sabato 5 alle 19.45 (e in replica a piacere) L’Orontea di Robert Carsen e Giovanni Antonini va su La Scala Tv per pochi euro. E Antonio Cesti, grande maestro del Seicento insieme a Monteverdi e Cavalli, arriva sul divano di casa. Vestito a scelta fra la A di Armani e la Z di Zara.
Foto: Vito Lorusso © Teatro alla Scala
Teatro alla Scala: Antonio Cesti L’Orontea. Dirige Giovanni Antonini, regia di Robert Carsen