Con ‘Il passo falso’ Marina Morpurgo vince la scommessa di raccontare con levità ed ironia un intreccio di vicende tra guerra, fascismo, Resistenza e deportazioni sullo sfondo storico e geografico dell’alto lago di Como
Si può scrivere di guerra, fascismo, Resistenza, deportazioni, Shoah con penna leggera eppure profonda? Si può ridere di un uomo afflitto da demenza senile e solidarizzare con la sua Santippe? Ambientando il tutto fra le amate montagne vissute e scalate, ma con l’occhio alla storia oltre che alle cartine geografiche?
Certo che si può, a patto che a scrivere sia Marina Morpurgo, già autrice di un mémoir di culto, È solo un cane (dicono) e ora del romanzo Il passo falso (Astoria) che si divora come un giallo, fa ridere come capita a chi frequenta l’irresistibile bacheca FB dell’autrice e fa riflettere su un truce passato che allunga le sue ombre sul presente.
Come spesso accade, l’idea del romanzo è nata quasi per caso: “Mi ero appena documentata approfonditamente sulla città e i suoi dintorni per il mio libro Storia di Lecco, quando un’amica mi ha detto: ‘Perché non scrivi qualcosa sull’alzheimer?’. E subito è arrivata la connessione: vecchio demente, montagne, storia”.
Chi è Emilio Rastelli, scorbutico pediatra che, nei rari momenti di lucidità, fugge da moglie e badante verso la sponda orientale del lago di Como? Che cosa lo attira in quei luoghi, e insieme lo turba? Luoghi abitati, tanti anni prima, dagli altri protagonisti del romanzo: l’adolescente Giuseppe, ragazzo ebreo in fuga dai nazisti, la coetanea Irma, figlia di un oste che aiuta i partigiani, il fascista riluttante Antonio e il suo tremendo comandante Fumaroni detto ‘el Catif’. E il soldato inglese John e la vecchia Celestina e Don Giorgio e l’ingegner Ghezzi. Tutti personaggi tratteggiati con simpatia (quelli che se la meritano) e senza attingere al facile sdegno per i peggiori, laddove il peggio non è solo la bieca violenza ma, più spesso, l’indifferenza. O, come nel caso del dottore, un male antico che ha invano cercato di nascondere, in primis a se stesso.
I diversi personaggi si muovono in un affresco composto da diverse stanze temporali che si alternano fra loro: “Scrivevo con la scrivania ingombra di post-it con gli eventi storici dei vari anni” racconta l’autrice. Si parte dal presente, l’ospedale dove l’anzianissimo e malandato dottor Rastelli fa la dialisi, per retrocedere addirittura al 1924, nella nebbia di Londra dove si incontrano i genitori di Giuseppe, il padre Edoardo e la madre ebrea inglese Hannah. Si salta all’autunno del 1943, cruciale punto di svolta della guerra con l’entrata dei nazisti in Nord Italia e si rotola fino all’immediato dopoguerra. Sempre con continui ritorni alle vicende contemporanee del dottore, di sua moglie Carla, della caposala Amatucci e del badante Roberto in un crescendo di suspence (occhio ai falsi indizi sparsi dall’autrice) e di humor. Gli esilaranti dialoghi fra Rastelli e Carla (“Ho attinto abbondantemente a quelli della famiglia del Mulino nero, cioè la mia”, ammette Morpurgo) allentano la tensione di una trama che poggia su solide basi storiche: come la relazione dell’ingegner Giuseppe Bacciagaluppi, alias ‘ingegner Rossi’, alias ‘Anfossi’ alias ‘Joe’, uno dei responsabili della rete nata in seno al Comitato di liberazione nazionale cui si si è ispirata l’autrice per le pagine in cui si narra dei partigiani che aiutavano ebrei e prigionieri a riparare in Svizzera accompagnandoli ai passi più sicuri. E la montagna, anzi quelle montagne che si ergono sopra il lago di Como, sono gli altri protagonisti del romanzo. Luoghi che Morpurgo conosce bene, perché da anni ha lasciato Milano per vivere, arrampicare, vogare fra quei pendii e su quei lidi. E, fortunatamente per noi, per continuare a scrivere.