Sulla mostra di Klein e Fontana, e molto, moltissimo altro. Dal CIMAC al Museo del 900, le mostre, la ricerca, gli anni Sessanta, l’avanguardia e gli ex voto di Yves Klein custoditi dalle suore…
Un’intervista a Flaminio Gualdoni sulla mostra di Klein e Fontana al Museo del Novecento si è trasformata in una conversazione-fiume su cosa significa fare storia dell’arte, pensare un museo e fare mostre oggi, in generale.
La lunghezza joyciana del pezzo avrebbe consigliato a qualsiasi redattore sano di mente di tagliare (di brutto), ma il redattore in questione non se l’è sentita, e ha preferito lasciare al lettore la possibilità di tornare più volte a questo dialogo, ripensarci, interrompere la lettura e riprenderla. Sarà sempre un’esperienza fruttuosa. [N.d.R.]
Come ogni storia degna di questo nome, abbiamo bisogno di un antefatto. Fino al 1998, quando il Museo del Novecento non esisteva ancora, le raccolte comunali di arte contemporanea erano esposte – gratuitamente – al CIMAC e tu eri lì, al fianco della direttrice Mercedes Garberi (1927-2007). Cos’è successo dal 1998 a oggi? Come siamo arrivati all’attuale Museo del Novecento?
Fondamentalmente il Museo del Novecento nasce con dei peccati originali. Il Civico Museo di Arte Contemporanea allora aveva sede al secondo piano di Palazzo Reale. In seguito l’Amministrazione pensò di riorganizzarlo in due sedi: una avrebbe raccolto le opere fino alla generazione “che fa solo i quadri”, quella del classico moderno per intenderci; doveva poi esserci un altro spazio, del quale come spesso accade si sono perse le tracce, che avrebbe documentato dalle neoavanguardie a oggi. Ricordo che la scelta dell’Arengario fece nascere non poche perplessità fin dall’inizio. In termini prosaici di metri quadri lo spazio non è poi tanto: è ridotto a prescindere. Ha una centralità pazzesca certo, ma è oggettivamente molto difficile farci un museo, soprattutto a causa della natura dell’edificio, su cui è difficile intervenire. Poi si è persa per strada la seconda sede e hanno dovuto comprimere e compattare tutto lì dentro, e uno spazio che era già problematico lo è diventato ancor più: è diventato infelice.
Infelice soprattutto dal punto di vista del percorso: è un’impietosa serie di scale e corridoi, nel quale puntualmente si rischia di perdersi…
Proprio così. Probabilmente sulla carta poteva essere un progetto suggestivo, ma nella realtà non poteva funzionare. E non funziona: appena esci dai quadri con la cornice, nel senso canonico, ti accorgi che lì c’è qualcosa che non quadra, prima di tutto perché non hai le distanze che occorrerebbero in un museo.
Vittime di architetti e allestitori come siamo, quando hai uno spazio un po’ articolato come questo, è fortissimo il rischio che il quadro diventi l’arredamento dell’architettura. Lo si avverte molto in certi passaggi, e neanche per un eccesso di ego dell’architetto, ma semplicemente perché se sto transitando in un corridoio, il quadro appeso alla parete ha lo stesso effetto di un’applique. Non stiamo parlando di corridoi del genere Louvre: ci sono case private con corridoi più ampi di quelli del Museo del Novecento…
Andrebbe tutto ripensato?
No, non dico questo. Ma, se ci fossero altri soldi e altre volontà, sarebbe probabilmente giusto tornare almeno in parte all’antico progetto, che era di destinare l’Arengario soltanto alla pittura “classica” del Novecento. Ai tempi (se non sbaglio sotto la giunta Albertini), si parlava di recuperare un edificio industriale a Bovisa, che sarebbe servito per accogliere le installazioni eccetera, quelli che fanno cose diverse dai quadri e dalle sculture canonici…
Fare delle mostre in questo spazio è possibile? Il comunicato stampa di Klein Fontana si fregia del merito di essere la prima a varcare “lo spazio espositivo della manica lunga che ospita abitualmente le esposizioni temporanee, occupando alcune delle sale più rappresentative della collezione permanente”.
Farci delle grandi mostre secondo me è di fatto impossibile. Per come ci è stato dato questo Museo – così lo abbiamo ricevuto, e mo’ ce lo teniamo – si possono fare delle piccole mostre scelte: e ne ho viste di bellissime, per esempio era straordinaria quella su Pellizza da Volpedo. Una volta tanto, oltretutto, i curatori sono costretti a fare delle mostre di studio, cioè non delle mostre “grosse”, ma delle mostre con tanto sale in zucca e poca esibizione di muscoli. È un’opportunità importante. Insomma, è un posto perfetto per fare mostre di approfondimento, di analisi. In questo caso hanno voluto tentare la soluzione di incrociare esposizione permanente e temporanea, ma mi pare proprio che non funzioni…La mostra, almeno io personalmente, avrei preferito vederla tutta intera, ordinata. Il tema è affascinante, e poteva diventare una bella storia.
Prima di passare alla mostra volevo fermarmi ancora un momento sull’allestimento. E in particolare proprio sulla ricostruzione della Struttura al neon del 1951, che è diventata il cuore e l’icona del Museo, forse anche perché si vede dalla piazza. Però si tratta pur sempre di un rifacimento. Per te qual è il suo valore? Falso o documento?
Ci sono delle opere per le quali io trovo assolutamente legittima la ricostruzione: laddove esista un esecutivo fedele, al quale un artigiano possa fare riferimento, non vedo perché no. Fontana ne era consapevolissimo. Il soffitto della Triennale doveva durare i mesi della Triennale, poi sarebbe stato smontato. Quando lo rimontammo, a suo tempo, a Palazzo Reale, in cima allo scalone di Palazzo Reale che saliva al CIMAC, a me accadde anche di sentirmi dire che non sono più i neon originali: roba da delirio! Ce lo chiedemmo anche allora quale legittimità ci fosse nel dislocarlo. Oltretutto si trattava di un’installazione in un certo senso site specific.
In questi casi bisogna davvero fare di necessità virtù, e noi ci ragionammo a lungo all’epoca… poi il grande vecchio Lodovico Barbiano di Belgiojoso, che era saggio e dava ottimi consigli, ci disse che la collocazione sullo scalone di Palazzo Reale suonava come citazione, bastava non spacciarlo per ciò che non era più. È un oggetto che vive di una strana esistenza intermedia: è molto più che un documento, non è veramente un’opera, ma resta un capolavoro, comunque lo si metta.
Del resto è successo anche altre volte, no?
Sì, sì: è una cosa che succede con frequenza nella storia delle opere. Voglio dire, se vai a Colmar a vedere l’altare di Isenheim ti piace molto, ma nella collocazione originale probabilmente doveva essere molto meglio. Quatremère de Quincy lo scriveva due secoli fa che il déplacement non è mai un affare.
Detto questo, è chiaro che nel progetto di allestimento del Museo del Novecento l’hanno scelto come icona. È molto forte, e io lo trovo un bel segno.
Sappiamo benissimo che c’è una larga fascia di oggetti che condividono un destino così: nascono per una vicenda e poi la storia gliene fa avere un’altra. Qualche volta funziona qualche volta no. La Nike di Samotracia la vediamo sempre da troppo in basso, come tutte le pale d’altare in tutti i musei del mondo. Te ne fai una ragione. È anche sciocco dire purtroppo o per fortuna: è così…
L’essenziale, nel reimpiego intellettuale, è di farne un uso decente. Il neon è un uso decentissimo per me.
Ora passiamo alla mostra.
Il progetto scientifico è convincente: è basato su dati storici oggettivi ed è stato sviluppato con serietà da studiosi capaci. Tenendo presente la grande retrospettiva su Fontana che si è chiusa in agosto al MAM di Parigi, qualcosa di inimmaginabile al Museo del Novecento, questo lavoro è la cosa migliore che si potesse fare. A Parigi, quindi per un pubblico prevalentemente non italiano, ha ancora senso dimostrare pienamente il peso che ha un artista come Fontana. Su scala internazionale non è ancora riconosciuto come dovrebbe. E che le sue opere costino tanto non conta: quelle del mercato sono gerarchie diverse.
L’ultima grande mostra su Fontana a Parigi era stata quella del 1987-1988 al Pompidou, che fu un’altra mostra bellissima. Ma in Francia è diverso il codice di rapporto col pubblico: a Milano non devi spiegare a nessuno chi è Fontana.
L’accostamento dei due artisti ha senso e funziona, per te?
Sì. Credo, anzi, che questa mostra sia uno di quei rarissimi casi in cui due nomi di giganti non sono accostati per far botteghino ma con un senso reale. Perché la generazione di quelli che l’hanno messa in piedi, di quelli che studiano ora, matura dei progetti basandosi su cose certe e non sul mito curatoriale. Una delle cose che sta passando di moda – e che spero passi ancora più in fretta – è la storia del contributo creativo dei curatori. Certo che si può mettere insieme chiunque con chiunque: può venirne fuori un’idea suggestiva da raccontare al bar, ma raramente dagli accostamenti casuali vien fuori una bella mostra. Quando però c’è la Storia a dirti che quell’accoppiamento ha senso, allora farci una mostra diventa doveroso.
Una delle vicende che mi fece veramente imbufalire fu il giochino fatto con Caravaggio e Bacon a Villa Borghese, che era una cosa del tipo: va beh, mettiamoci due qualunque, purché famosi. Che senso ha? Infatti era bellissimo leggere le giustificazioni in catalogo: non ce n’erano. Ci scrissi sopra anche un pezzettino, perché alla fine era una roba tipo “Asparagi e l’immortalità dell’anima“, il cui unico fine era dimostrare che tra questi due non c’era rapporto. Bravi tutti e due, e buonanotte.
Qui invece è tutto documentato, e bene: fra Yves Klein e Lucio Fontana esisteva un rapporto di conoscenza, stima e amicizia, umana e professionale.
C’è un incontro storico preciso e importantissimo, che sta all’interno di un percorso – quello di Fontana – che è alla sua svolta cruciale. Siamo alla fine anni Cinquanta. Fontana non è ancora il Fontana che conosciamo tutti, sta iniziando a fare i tagli in quel momento lì. Viene dall’esperienza dei Buchi – che sono un roba pazzesca –, dai soffitti, dall’ambiente spaziale, da tutto quello che sappiamo, ma è lì. In quel momento trova Klein.
E cosa ci trova?
Finalmente vede che non è più da solo a fare queste cose. Non nel senso orgoglioso del “io ho predicato e adesso ci sono gli adepti” ma piuttosto “io ho tirato delle sassate e adesso qualcuno ha capito che non erano delle sciocchezze”, e sta succedendo un’arte effettivamente nuova. È una storia che Fontana ha con Klein, ma anche con Manzoni, con Jef Verheyen, in genere con tutti i giovanotti, con Azimut, con Zero, con Gianni Colombo e il gruppo T, con il gruppo N…
Fontana peraltro era uno che quando vedeva il talento di un altro artista era contento, il che è a dir poco infrequente. Lui aveva sistematicamente questo atteggiament nei confronti degli artisti giovani: li finanziava più o meno direttamente facendo scambi di opere, ma soprattutto era disposto ad “appadrinarli” – questo è un termine che inventò lui, nel suo strano italiano – perché si rendeva conto che fa parte del mestiere di artista anche questo, se non sei uno stronzo.
E con Klein come andò?
Eh, a un certo punto arriva Klein, che è un pazzo furioso, completamente fuori-codice, anche rispetto ai fuori-codice allora correnti. Molto più brusco del Manzoni del 1957. Arriva da un’altra parte del mondo, da una storia del tutto diversa dalla sua, e fa una cosa pazzesca come la serie dei monocromi. Fontana si rende immediatamente conto che può dirsi: “ho un figlio segreto, o un fratellino”, non so…
Uno che, come Fontana stesso, fa questo genere di operazioni senza avere chissà quale premessa teorica: le fa e basta. Se dovessimo giudicare Fontana dalle poche cose che ha scritto e sulle interviste che ha concesso… non è esattamente un gigante della teoria artistica, il che è il suo bello, perché quelle cose le capisce facendole, e le fa.
Fontana trova Klein straordinario e diventa uno di quelli che si mettono a spingerlo di più. Pensa per esempio a quando gli propone di lavorare a quattro mani! È un segnale al mondo, è un credito, un suggerimento a considerarli paritetici. Mettiti nei panni del giovane artista: arriva Fontana e ti propone di fare un quadro insieme. Cacchio, cammini sollevato da terra!
Un “appadrinamento” simile, altrettanto spassionato, è quello di Dino Buzzati per Klein. Dalla recensione Blu blu blu, scritta in occasione della prima mostra italiana di Klein nel 1957, fino all’acquisto di una Zone de sensibilité picturale immatérielle nel 1962, Buzzati lo ha sempre seguito da vicino. Perché secondo te c’è stato questo riconoscimento immediato?
In realtà questi personaggi, penso soprattutto a Klein e Manzoni, non sono neanche veramente pittori, cioè non appartengono praticamente alla disciplina, stanno facendo dell’altra roba, dell’altra roba che qualcuno che, di suo, non viene dalla disciplina fa prima a capire che non il critico d’arte in carriera. (A parte la celebre prefazione di Pierre Restany, non è che la mostra da Le Noci procuri tutto queste recensioni a Klein). Per fare un esempio che riguarda Manzoni, quando organizza la mostra delle Linee, l’apertura di Azimut, Leonardo Borgese gli riserva una stroncatura gigantesca… La vera domanda non è perché Borgese la stronca, ma perché è l’unico che ne scrive? Perché gli altri critici non se ne accorgono nemmeno, veramente.
Probabilmente questo tipo di operazione, le serie di Proposition Monochrome da Guido Le Noci, funziona solo in questa chiave. Voglio dire, funziona solo perché è decifrabile da uno che non le misura con l’arte come Buzzati, che la testa ce l’aveva fine e molto aperta. Uno che non guarda Klei come un artista, ma come una figura intellettuale che sta facendo un’operazione intellettuale. E quindi, lo legge.
E poi credo anche che uno come Klein fosse affascinantissimo. É un aspetto che a noi ovviamente manca, ma personaggi come quello dovevano avere un tipo di magnetismo che incideva molto sugli interlocutori.
A Milano, negli stessi anni, c’era in circolazione anche Manzoni. Secondo te, che ne hai appena curato la biografia per Johan & Levi e la retrospettiva a Palazzo Reale, avrebbe avuto senso tirarlo in ballo e fare un Klein-Fontana-Manzoni?
È stato sensato non tirarlo in ballo, intanto proprio perché c’era stata da poco la mostra a Palazzo Reale, quindi sarebbe diventata in qualche modo una sovrapposizione. Poi sono convinto che tutte le volte che si scinde la lettura di Klein da quella di Manzoni li si aiuta entrambi. Si tende a metterli sempre insieme, come Castore e Polluce, e quindi in qualche modo a impostare una lettura condizionata.
Sono due personaggi che hanno evidentemente degli incroci biografici e intellettuali pazzeschi, ma anche forti differenze. Tra l’altro il rapporto così diretto e di riconoscimento così immediato che Fontana ha avuto nei confronti di Klein è diverso rispetto a quello che ha avuto con Manzoni. Con lui, per varie ragioni, è stato un po’ più paterno. Manzoni non è un collega subito pari, Klein lo sente subito più immediatamente vicino in quel senso.
Vuole bene a Manzoni, e da subito lo considera geniale, ma lì conta anche la biografia: lo conosce sin da piccolo, è un personaggio della sua città, lo vede spessissimo. Tutto questo con Klein non succede. Con lui ci sono, invece, tutta una serie di vicende internazionali, il contatto con Iris Clert… la faccenda assume anche una dimensione professionale.
Una delle scelte migliori, da parte dei curatori, è stata di offrire ai visitatori tanto materiale documentario: la saletta con le carte d’archivio e quella con i filmati. Ho notato che anche chi non è “addetto ai lavori”, chi non è abituato a considerare questo genere di testimonianze, si ferma affascinato a guardare. Mi sembra la strada giusta.
Garantito. Si può addirittura pensare che nel caso di questi artisti considerati “difficili”, o difficilmente comprensibili da parte del pubblico meno avveduto, il documento avvicini. Se devo immaginarmi una persona di media cultura alla quale non importa più di tanto di Fontana o di Klein, con tutte le prevenzioni stereotipe su tagli, buchi, eccetera, il fatto di vedere che questi artisti hanno avuto una vita, che ci hanno pensato sopra davvero, che lì ci sono ragionamenti, spiegazioni anche, che non si tratta di colpi d’estro per far bella figura o provocare e basta ma che c’è dietro davvero un pensiero dell’arte… Secondo me serve anche in questo senso, per rendere meno estraneo il visitatore.
Quando pochi mesi prima preparavamo con Rosalia [Pasqualino di Marineo, N.d.R.] la mostra su Piero Manzoni e chiedevamo dei tavoli perché volevamo esporre i documenti, tutti ce lo sconsigliavano perché “alla gente non gliene frega niente di queste cose”. L’idea vincente, per molti, è ancora l’ostensione di queste strane ostie attaccate ai muri che sono le opere d’arte: uno va lì, capisce o non capisce, e a nessuno importa. La mostra rischia così di ridursi a una presa d’atto: vai in mostra e prendi atto che quello lì è uno importante, anche se tu non riesci a spiegartelo. A me sembra una scemenza.
Ma è chiaramente anche uno strumento di potere rispetto alle gerarchie del mercato e non solo, cui molti non vogliono rinunciare: si preferisce far andare la gente in mostra e farla uscire come è entrata, senza che nulla sia cambiato. Magari nessuno si sognerebbe di dire che Fontana fa schifo – non sarebbe intellectually correct – ma non oserebbe nemmeno ammettere che non sta capendo quello che ha davanti. Il documento può essere l’occasione per scassare questo meccanismo, per dare una chiave d’accesso all’opera, può essere utile insomma.
Sì, ma lo è anche per chi ne capisce! Le generazioni nuove di studiosi hanno il vantaggio di non essere obbligate a dimostrare la propria militanza: non è più in discussione la necessità di proclamare la bravura di Fontana. Puoi darla per acquisita, storicizzata: puoi cominciare a studiare il perché e il percome, puoi entrare in profondità anziché continuare a fare il discorso generale.
Quando si comincia a fare della filologia possono venire fuori generazioni di studiosi noiosi, ma in un sacco di casi – e questa mostra è esemplare – viene fuori un sacco di roba che davvero anche noi studiosi – detto con tutte le minuscole possibili – siamo contenti di vedere. Mi dai la spiega, mi dai la ricerca e me la fai anche vedere. È un modo che oggi è possibile, almeno per questi grandi autori è possibile, prima invece era sempre il grande volo d’uccello: “tu devi convincerti che lui è un genio perché te lo dico io”.
Un’ultima cosa, che mi ha incuriosito molto, è l’Ex voto per Santa Rita da Cascia. È una storia particolare, una vicenda nella quale nessuno si sarebbe mai immaginato di incontrare uno dei massimi artisti del secondo Novecento.
È una vicenda abbastanza nota, ci aveva scritto sopra molto anche Restany, ma ha avuto una strana circolazione, credo per un certo ritegno iniziale a mostrarlo. Del resto era un oggetto molto legato alla sua intimità, e le suorine di Cascia ovviamente fanno un altro mestiere che non gestire prestiti di opere.
Io la trovo interessante perché si dà per scontato, prendendo entrambe le posizioni, quella più favorevole e quella più sfavorevole, che un certo radicalismo espressivo abbia come corrispondente un certo atteggiamento vitale, una certa ideologia, etc. Invece non è così. Basta pensare che la famosa coppia di giovanotti più radical di quegli anni, che sono Klein e Manzoni, sono tutti e due personaggi che oggi definiremmo – nelle mille stupidarie attuali – di destra. Uno, Manzoni, era aristocratico e cattolicissimo, l’altro, Klein, era cattolicissimo e in odore di esoterismo.
Non vengono fuori da un atteggiamento di alterità sociale o di antagonismo sociale, e questo me li rende più affascinanti, perché veramente la loro è una sorta di eversione a prescindere, non è un’eversione contro, è un’altra roba. È una specie di dismisura assoluta.
Questo funziona come smentita, e dovrebbe portare a una ridefinizione più ampia, far ripensare tutta questa connotazione ideologica che l’avanguardia, probabilmente, non ha mai avuto così come ce lo siamo raccontato. L’ha avuta in alcuni casi molto evidente, penso ai tedeschi per esempio, ma non sempre, non comunque e non tutte le volte.
L’essere avanti non voleva dire necessariamente essere avanti in tutto, o viceversa. E il caso di Klein è uno dei più vistosi.
Tra l’altro, poi devo dire che sarebbe interessante porsi, davanti a questo genere di opere, una domanda seria intorno a cosa intendiamo per “sacro” quando parliamo di arte sacra. Quella roba lì è arte sacra? Io direi di sì… Poi che tanta gente l’abbia vista e possa prenderne atto per me è importante.
Foto: Yves Klein e Lucio Fontana alla mostra delle Nature Parigi, Galerie Iris Clert, novembre 1961 (part.). Photo: Shunk-Kender © Roy Lichtenstein Foundation