Solari adatta Marber (e Strindberg) ma l’operazione è poco incisiva. Il tempo scenico fatica a tenere la direzione del melodramma; si salva però Lino Guanciale
Il motivo di Sola me ne vo risuona prima che il sipario si apra per svelare l’interno cucina di una casa borghese epicentro di un dramma familiare mentre intorno – è il 29 aprile del 1945 – si festeggia la festa della Liberazione dal fascismo.
Nell’originale di Strindberg, classico del teatro moderno, uno dei grandi ritratti femminili del Nord assieme a Casa di bambola, era la notte di san Giovanni, festa tradizionale contadina che nella riduzione dell’inglese Patrick Marber è diventata la fine della II guerra mondiale, nel ’45.
Insomma, una notte di liberazione in senso globale. Data e azione si spostano leggermente verso di noi, a significare forse che i temi sono attuali e non consunti: la lotta di classe tra la signorina Julie e il servo (inteso alla Losey), che qui diventa l’autista arrampicatore come in Downton Abbey e la lotta sociale contro la sopraffazione nazi fascista, e al centro la spiegazione più che la liberazione della donna, non ancora iniziata ai tempi di Strindberg ma già in embrione dentro la coscienza collettiva cui poi darà voce definitiva Freud.
La commedia ha avuto una edizione storica di Luchino Visconti nel ’55 con Lilla Brignone, Massimo Girotti e Ave Ninchi, stazza perfetta per il ruolo di cuoca, psicosomaticamente parlando e il tutto pervaso di quel realismo magico che il conte Visconti sapeva usare meglio di tutti, lui che voleva, se c’era un guardaroba in scena, che fosse pieno di fine biancheria.
Nello spettacolo di oggi che Giampiero Solari ha messo in scena osservando al microscopio il realismo dell’ambiente col caffè vero e le sigarette vere e gli stracci veri, sia dei gesti sia dei pensieri (ma questa chiave oggi è vintage), tutto diventa un mélo di debole spessore televisivo come infatti testimonia la scelta di produttrice della protagonista poco avvezza al teatro, Gabriella Pession che si avvale del suo partner storico Lino Guanciale (La porta rossa) che è invece, oltre che idolo di teen ager, un ottimo esperto attore di teatro con un passato prossimo fatto di Brecht e della Classe operaia e prossimo ad apparire come Pasolini in Ragazzi di vita allo Strehler.
È lui l’unico che si destreggia offrendo espressione ed emozione, con sguardo mesto, nei 100 minuti di spettacolo in cui seduce due donne, obbedisce al padrone, poi tenta di tradirlo, dice che figurarsi se è comunista, ma alla fine il tempo scenico fatica a tenere la direzione del melodramma. Spesso la reazione del pubblico, non più abituato al naturalismo, va in direzione contraria (l’uccisione dell’uccellino è una scena chiave che risulta horror parodia), suscitando sonori risate, anche se alla fine il consenso è totale.
Tutto il meglio del testo originale rimane tra parentesi nella regìa di Solari che non approfondisce temi ideali e non dà poesia all’illusione di vivere e amare, né utilizza l’ambiguità sociale del “Servo” autista (come nel “Conformista” di Moravia, secondo richiamo) che dovrebbe dar inizio con la sua scalata alla vita a un nuovo capitolo di storia, magari da denuncia. La passione tra i due, con il terzo incomodo della promessa sposa colf, va dentro le pieghe di un testo artefatto più che rifatto, che cade nel dèja vu di tante altre cose simili e oltre a Guanciale, strapazza in scena le sue vittime di sciupafemmine, la citata Pession e Roberta Lidia de Stefano. Il tutto accade al Parenti, esaurito fino al 23.
Immagine di copertina © Laila Pozzo