‘Crazy for football’ di Volfango De Biasi è la storia di una scommessa: portare ai mondiali di calcio in Giappone una squadra di pazienti psichitrici: ce l’hanno fatta anche se non hanno vinto
Il disagio mentale al cinema ha ormai una lunga tradizione, che parte dal “glorioso 1976” dei cinque oscar a Qualcuno volò sul nido del cuculo, da Milos Forman a Jack Nicholson, alla bellezza, nel nostro piccolo ma non tanto, di un film-documento esemplare come Matti da slegare di Bellocchio-Agosti_ Petraglia–Rulli. E volendo si potrebbe tornare ancor più indietro, fino al 1963 del folgorante Shock Corridor di Samuel Fuller, o a Family Life (1971) di Ken Loach, che mise in immagini le teorie del padre dell’antipsichiatria, Ronald Laing, uno dei veri teorici del ’68.
L’occasione per vedere volti autentici di pazienti sullo schermo arriva ora, in un’opera di minor peso rispetto a questi ingombranti “antenati” ma niente affatto trascurabile, Crazy for football di Volfango De Biasi: dieci anni dopo il suo assai simile Matti per il calcio racconta ancora come il gioco del pallone e le sue dinamiche relazionali, di solidarietà umana ma al tempo stesso anche di disciplina sportiva, possano essere un veicolo importante per far passare messaggi utili per la ricerca di un equilibrio mentale diverso, individuale e soprattutto di gruppo.
Nel 2006 raccontò le dinamiche interne di una squadra, il “Gabbiano”, fatta di giocatori affetti da diversi tipi di disturbi che riuscirono a vincere il “loro” campionato italiano, nel film uscito in questi giorni, a macchia di leopardo in diverse situazioni italiane, la dozzina d’oro di atleti ha l’onore di vestire la maglia della nazionale dei pazienti psichiatrici destinata a giocarsi il mondiale di categoria in Giappone, contro i “campioni” locali, che vinceranno, e quelli coreani e peruviani.
Passato all’ultima Festa del Cinema di Roma, Crazy for Football, documentario non pedante o dottorale, segue il formarsi della squadra in Italia, fin dalla selezione dei candidati, con le loro variegate vicende di emarginazione, sofferenza, lungo una fascia d’età che parte dalla giovinezza dei più svelti e brillanti e arriva ai quasi 50 anni del portiere, un oriundo sudamericano che saprà farsi valere, come tutti i suoi compagni. Poco a poco conosciamo lui e un’ex guardia del corpo, il liceale e il “rosso di Sardegna”, persone con un carattere e un’identità non definibili solo dalla loro patologia. I giocatori raccontano la propria storia clinica con forte consapevolezza e lucidità analitica come uno scivolone nell’ignoto, un passo falso nell’oscurità.
In campo, oltre all’ex calciatore Enrico Zanchini che fa il loro allenatore e il pugile ex campione del mondo Vincenzo Cantatore nel ruolo di preparatore atletico, c’è Santo Rullo, figura rassicurante e carismatica, presidente dell’Associazione Italiana di Psichiatria Sociale, impegnato da molti anni a far vivere il lavoro, e proseguire le conquiste avviate molti anni fa da Franco Basaglia e Giovanni Jervis. Anche nel calcio, che può diventare, e il film lo dimostra, uno strumento di terapia e di inclusione, reinserimento sociale. Rullo la spiega così: “L’incontro sul campo di gioco garantisce un riavvicinamento tra il paziente e il suo quartiere, abbattendo le differenze tra i “sani” e i “malati”. Il campo diventa il luogo in cui il paziente compie il primo passo nel ricominciare a vivere con gli altri. Persone che in qualche modo fuori hanno smesso di rispettare le regole, riescono con facilità a seguire, accettare quelle del calcio, e ciò apre spesso la strada a un completo recupero sociale.”