Mario Cresci (Chiavari, 1942), non chiamatelo soltanto fotografo, perché non è un semplice fotografo, ma uno sperimentatore, sempre contaminato anche dal design, l’arte, l’architettura e,…
Mario Cresci (Chiavari, 1942), non chiamatelo soltanto fotografo, perché non è un semplice fotografo, ma uno sperimentatore, sempre contaminato anche dal design, l’arte, l’architettura e, nel suo modo di lavorare, inserito in una progettualità. Quando parla è un fiume in piena. Lo incontro di fronte all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove ha insegnato e dove espose la sua prima mostra, «il mio primo fallimento»; per la nostra intervista scegliamo il bar lì accanto, tra Fiori Oscuri e via Brera, da cui l’Accademia possiamo continuare a osservarla.
Due mostre su di lui, molto diverse tra loro e che gravitano attorno a Milano, per poco hanno rischiato di incrociarsi: quella a Cinisello Balsamo, presso il Museo di Fotografia Contemporanea, intitolata Racconti Privati. Interni 1967-1978, conclusa il 13 settembre, ci ha parlato dei suoi anni a Matera: con il gruppo Politecnico, lavorando al piano regolatore della città di Tricarico, documentò la civiltà contadina del sud, con uno sguardo tuttavia molto lontano dal semplice reportage, più rivolto a uno studio etnografico e antropologico e impregnato degli studi di Industrial Design a Venezia. In bilico nel tempo sarà invece inaugurata dopodomani, 1 ottobre, presso la Galleria Artcurial di Corso Venezia, e riguarderà la sua produzione più recente e un modo molto diverso di guardare alla realtà; raggruppa un numero ristretto di lavori, sei, «intorno all’idea di fotografia e arte, con l’arte intesa anche in senso storico». Sono due mostre «molto diverse, anche perché nel mezzo sono passati molti anni», mi conferma: per i Racconti Privati è troppo tardi, mentre In bilico nel tempo sarà visitabile dal 2 al 31 ottobre.
Esse raccontano «due momenti dei miei interessi che ci sono stati e ci sono tutt’ora: certamente quella di Cinisello era una mostra storica, arrivata con qualche anno di ritardo. Quel periodo è finito, portando con sé la cultura contadina, ma io l’ho vissuto senza la retorica del populismo». Di quel periodo fanno parte i suoi Ritratti mossi, realizzati nel 1967 e ripresi nel ’74, dove i volti, immortalati nelle case e circondati da oggetti domestici, sono resi illeggibili dal mosso fotografico; ancora, la serie dei Ritratti reali, dove famiglie posano all’interno delle proprie case tenendo ritratti dei propri cari e antenati. «Era importante il mio rapporto con gli altri, a cui mi avvicino attraverso l’atto del vedere».
Quando da Matera Cresci è tornato a Bergamo, negli anni ’80, ha insegnato all’Accademia Carrara di Belle Arti, riallacciandosi agli artisti e riprendendo in pieno la sua attività di ricerca artistica, cominciata durante la formazione giovanile a Venezia; è in questa direzione che poi ha continuato, seguendone gli echi, come testimonia la mostra in arrivo. «Da progettista mi è stato insegnato che la fotografia è un linguaggio da sperimentare, non solo in rapporto alle arti, ma anche come linguaggio in se stesso, con una propria autonomia e un modo di essere indipendentemente dal referente». Si possono creare immagini senza avere un negativo o un referente realistico, come indagarono le avanguardie, l’arte dadaista, parte del Novecento. «Mi ha sempre interessato quel tipo di ricerca. L’esplorazione dentro alle cose e un desiderio di comunicarle, in modo che provochino una reazione. Non solo uno sguardo di piacere o disgusto, ma domande. Questo viene dal mondo del design, con la semantica del linguaggio e la progettazione nella costruzione dell’immagine».
Cresci, infatti, non ha vissuto solo di fotografia: «Ho vissuto anche con la fotografia. Non si rimane chiusi nella propria disciplina, bisogna cercare di crearsi un multiverso di saperi che riguardano le arti in generale, anche quelle cosiddette “minori”». Così ha mantenuto nel tempo due voci, due anime «che adesso si sono riunite». Accanto alle sperimentazioni e alle ricerche, c’è quell’altra parte di Mario, che «mi appartiene molto e mi ha impegnato per vent’anni nel sud Italia: la scoperta, la verifica del Mediterraneo e delle sue culture». In entrambe le mostre, emblematiche di queste due anime, una ricerca di senso.
In bilico nel tempo «tocca temi già storicizzati: la Contessa di Castiglione, la carta piegata, la fotografia che diventa oggetto». Pochi pezzi, sei, difficili forse da collegare nello stile, ma riconducibili a una ricerca «sempre molto circolare, che tocca temi come la geometria del vedere». Quattro grandi fotografie di tende, all’ingresso della mostra, tele rovesciate e rovinate, «fotografate sul retro perché il terremoto degli anni ’80 aveva distrutto tutto il patrimonio artistico della Basilicata». Non manca mai un riferimento alla storia. «Equivalents per esempio è un riferimento a Stieglitz che ho realizzato ed esposto qui a Brera: undici ritratti ricavati da dipinti antichi, fotografati in funzione dello sguardo che è presente in tutti i miei lavori: anche la Contessa guarda verso lo spettatore, attraverso un dagherrotipo». Altro filo conduttore è l’atto della fotografia, sempre di natura artistica e creativa. Lo strumento che sta in mezzo è governato dalla nostra visione, occhio ulteriore per vedere cose che altrimenti non vedremmo. «La fotografia non è solo il risultato di un lavoro dello sguardo, ma anche fisico, del camminare, dell’essere lì. Se desidero fotografare un mio sogno, una mia immaginazione, cerco di costruire quell’idea, la fotografo e poi la tolgo: resta solo la fotografia, testimonianza di un pensiero che si concretizza nel momento in cui con le mani faccio, piego la carta, realizzo modellini, poi fotografo. Non ho solo fatto un atto percettivo, ma anche operativo».
E il titolo? Esprime l’indeterminatezza di arte e fotografia. «Il tempo dell’arte, quello della fotografia e dell’immagine è sempre più instabile, liquido, qualcosa che ha a che fare con un problema: quello di non vivere di rendita su quello che ho fatto e mi è venuto bene due o tre anni prima. Ogni volta ricomincio da capo, non faccio un lavoro perché l’ho già fatto. Posso ripeterlo, posso ristamparlo, ma sarebbe come scrivere lo stesso romanzo che ho scritto due anni prima. Eppure c’è tanta gente che vive di quello». La mostra sovverte quel tipo di mentalità che mantiene in una zona sicura. «Sei sempre in bilico su qualcosa che non sai se ti verrà bene o se ti verrà male, però lo fai e quindi ti misuri anche con l’insuccesso e il coraggio dell’insuccesso. La storia dei fallimenti è forse più interessante di quella dei successi». Al momento Cresci sta lavorando sulla Pietà Rondanini: «L’ho toccata parecchie volte, perché avevo voglia di sentire, come quando si tocca una persona. È toccare l’autore che ha scolpito prima di morire quella statua, confrontarmi con un’opera emblematica di un’assoluta modernità, che a guardarla oggi diventa un’opera d’arte contemporanea, senza tempo, nonostante sia stata fatta nel Cinquecento». Anch’essa, in bilico nel tempo.
In bilico nel tempo, a cura di Nicoletta Rusconi Art Projects e Artcurial, Galleria Artcurial, dal 2 ottobre fino al 31 ottobre.
Immagine di copertina: Mario Cresci, Equivalents, 2014. Courtesy Artcurial