Paranoici quegli anni

In Letteratura

Con “La cresta dell’onda”, a cinqunt’anni dal suo esordio, Thomas Pynchon si immerge nel cyberspazio per raccontare con ironia e leggerezza le angosce dell’America d’inizio millennio

Il calendario: dal primo giorno di primavera del 2001 a quando i peri tornano a fiorire nell’Upper (o, ironicamente, Yupper) West Side. E cioè, dall’esplosione della tecno-bolla al post 11 Settembre.

La scena: ovviamente, New York con rare puntate oltre Manhattan.

La protagonista: Maxine Tarnow due figli e un matrimonio alle spalle, investigatrice specializzata in frodi finanziarie. Il suo antagonista: il miliardario Gabriel Ice che si arricchisce tra hi-tech e riciclaggio. Attorno a loro un coro di hacker, craker, analisti, programmatori, hipster, agenti federali, mafiosi russi, spie… E continui rimandi a palazzi tenebrosi o hi-tech, locali, bar, ristoranti tradizionali e famiglie ebraiche, spezzoni di vecchi film, cartoni e brani musicali.

Sono gli ingredienti che Thomas Pynchon, uno dei più lucidi e divertiti protagonisti della scena letteraria americana, miscela abilmente per farne quello che, solo apparentemente, sembra un techno thriller alla William Gibson.

Che sia altro da questo lo rivela già il titolo originale che solo in parte sa rendere quello dell’edizione italiana (La cresta dell’onda): Bleeding Edge, un termine che indica sì modernità e successo, ma, al tempo stesso, sangue e pericolo. Soprattutto quando si scende «lentamente dalla Manhattan antelucana in una tenebra pullulante, lasciando gli internauti di superficie sopra di loro, indaffarati a strisciare da un link all’altro, lasciandosi dietro i banner, i pop-up, i gruppi di utenti e le chat-room autoreplicanti…». È in questo spazio alieno che si nasconde Deep Archer, evoluzione estrema e continuamente cangiante di Second Life, popolata di inquietanti avatar. Nello scorrere delle pagine protagonisti e comparse sono sempre più soli nella battaglia contro forze oscure con le quali essi stessi, più o meno consapevolmente, collaborano. Così «la semplice paranoia da competitività si fa sistemica, con più nemici dentro che fuori».

Incombe l’11 Settembre che Pynchon descrive in mezza pagina e per interposta persona, ma che il lettore sa perfettamente segnare l’alba del secolo. Un’epoca in cui «la libertà è fondata sul controllo: tutti connessi insieme, impossibile che si perda qualcuno». Si può credere, allora, che l’11 settembre «sia stata un’operazione sotto falsa bandiera, di qualche super squadra invisibile, che ha falsificato l’intelligence, simulato le conversazioni in arabo, controllato il traffico aereo, le comunicazioni militari, i mezzi di informazione civili, tutto coordinato senza imprevisti o intoppi, l’intera tragedia inscenata per sembrare un attacco terroristico»? Impossibile, se non quando realtà e finzione si intrecciano come Pynchon sa fare perfettamente per raccontare il complotto del nostro comune disorientamento di fronte alla realtà. Con trame irrisolte, labili tracce, ipotesi inverificate e inverificabili (che molto hanno irritato la critica americana a partire dal New York Times) e una padronanza del lessico da cyberflaneurs che, credo, abbia reso davvero acrobatica la traduzione di Massimo Bocchiola.

“La cresta dell’onda” di Thomas Pynchon (Einaudi, pp. 570, 21 euro)

 

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