Vanno spiumate, le corone dei fiori, prima che i petali appassiscano: perché il dolore ha in fondo una sua democratica praticità, e nessuno sta a controllare che non si pianga due volte sulle medesime corolle. Così, a un funerale, Maria vede ciò che non si sarebbe mai immaginata: è salita da Roma a Milano, e il viaggio ha rimestato la sua inquietudine. Ciò che la casualità le ha messo davanti è un filo inaspettato che il passato aveva provveduto a spezzare. Vendicare il suo ricordo, a questo punto, diventa per lei un imperativo.
Tutti gli uomini arrivano e prendono un pezzo di Medea davanti agli occhi dei tre figli.
L’infanzia è Grado, nel 1979, la laguna dove si nuota in mezzo a un fondo limaccioso, l’ottundimento di una madre comunque amatissima e desiderata, protetta dai bambini che ne diventano – come possono, alla loro maniera – genitori.
Tempo di calura e di attesa, perché se mater certa est, non altrettanto è detto della capacità degli adulti di essere tali: vale per il padre, che è anche padre di tutti gli abbandoni, e poi per una serie di corpi stranieri che sfilano nella camera con le persiane abbassate; vale per i nonni, che ignorano l’affetto dei piccoli, e la loro volontà; vale persino per quel meccanismo di salvezza, imposto a norma di legge, che pure oblitera negli spazi compilati, evadendo il dolore come una pratica, anche una dose di civile violenza.
È così che Maria cresce, nelle pagine del romanzo di Cristina Battocletti, pubblicato da La nave di Teseo, ed è così che si apprende cosa sia quello che gli dà il nome: Epigenetica.
“Il DNA non è un codice fisso e immutabile, impara da quello che gli succede nella vita. Noi trasmettiamo tratti e comportamenti senza che la sua sequenza genica subisca cambiamenti ma, e qui sta il punto, delle esperienze che viviamo resta traccia scritta chimicamente sulla nostra doppia elica, come pure su quelle dei nostri progenitori. Potremmo definirla un’eredità genetica. (…) le esperienze quotidiane psicologiche, nutritive, ambientali hanno conseguenze sulle reazioni chimiche che attivano o disattivano parte del nostro genoma”.
Il fatto – che Maria apprende dai suoi 9 anni già fuori tempo – è che la tenerezza è imperdonabile, perché espone l’innocenza, mentre ogni sistema nel quale dovrà scontare il passaggio alla successiva maturazione parla un unico linguaggio: ed è quello della violazione di ogni fragilità. Il nucleo familiare, i servizi sociali, le famiglie tutrici, l’università, la casa editrice, il luogo di lavoro: si cresce a colpi di scalpello e di perdizione.
È una storia in discesa, quella che Cristina Battocletti racconta con lingua esatta: una catabasi che conduce Maria a diventare madre all’ombra della propria madre, nel dolore (e nel terrore) di replicarne l’atroce inadeguatezza.
Non è più Grado l’orizzonte, né il Friuli che alberga la vecchiaia scentrata di Medea; è Milano, la città grande, la “dea luterana” del fare ad assorbire la crescita di Maria:
“sono scattata in piedi di botto, per essere verticale come la città dei vortici di cui mi impegnavo a rispettare le regole non scritte: camminare veloce come tutti, essere tonica, nervosa, propositiva, correre lungo il pavimento di gomma della metropolitana per non perdere il primo vagone in arrivo, silente e morbido, pronto a scaricare i traffici umani e qualche volta disumani”
Cosa resta, dunque, quando ogni cosa sembra naufragare, e i pezzi del puzzle evangelico (i fratelli Pietro e Paolo, il marito Giuseppe, il piccolo Emanuele) finiscono per non combaciare più, dispersi, separati da forze sempre soverchianti?
Nell’ultimo angolo non ancora perduto, in quel nucleo che l’aveva vista, bambina, allearsi alle parole per ascoltarne il significato e incamminarsi nella pratica della loro ricombinazione, Maria decide di scendere al grado zero, per incontrarsi.
“Avrei voluto sigillare il baratro che mi viveva dentro, come una miniera di carbone o un pozzo di petrolio. Ma io da lì estraevo la benzina della mia vita e vivevo rimestando le sue viscere. Pescavo l’oscuro per avere in cambio il mio destino di scrittrice”
L’odio, la cura, la discuria, la rabbia, l’abbandono, l’incongruenza, la disperazione, l’alienazione, il desiderio, la fallibilità: ogni singola stazione della vita umana viene allora calcata, e attraversata – non per volontà di assolvere, ma per restituzione. Causa ed effetto possono, certo, tenere in scacco e segnare una intera esistenza. Eppure nulla (neanche la memoria alla quale si è creduto, e con cui si è cresciuti per una vita intera) è esente da scarto. E nello scarto vive – sempre – la possibilità.