La pandemia ha mostrato con violenza la vulnerabilità dei corpi e del corpo sociale. Dal Care collective, gruppo londinese, arriva un manifesto che propone l’idea di cura come fondamento delle politiche e delle relazioni, senza dimenticare le diseguaglianze e gli obblighi verso il pianeta che ci ospita
Negli ultimi mesi in molti hanno sostenuto che imparare dalla pandemia, e dalla riposta che, in positivo e in negativo, i governi, gli individui e la società civile hanno dato all’emergenza volesse dire ripartire dal concetto di cura nel nostro pensare la società. Ciò non sorprende se consideriamo che i drammatici eventi dell’ultimo anno hanno portato alla luce le nostre vulnerabilità, come raramente è accaduto nella storia recente. La vulnerabilità al virus e alle sue conseguenze, certo, ma anche la vulnerabilità economica, sociale e relazionale. La vulnerabilità maggiore e più urgente di alcuni strati della popolazione, certo, ma anche la vulnerabilità collettiva, come dato dell’esperienza umana.
Il contraltare della vulnerabilità è la cura, intesa come cura dei corpi, ma anche, in senso più in generale, come attenzione e riposta ai bisogni degli esseri umani. Dunque la cura che medici, infermieri e personale sanitario hanno fornito a coloro che hanno contratto il virus, ma anche quella che amici, parenti, familiari, vicini di casa e cittadini hanno fornito, in termini di aiuto e assistenza, alle persone in difficoltà.
La cura è una delle idee fondamentali di una parte del pensiero femminista, che, muovendo da una riflessione sul modo in cui le donne, non per ragioni biologiche ma socioculturali, si approcciano ai problemi morali, rivendica la cura come principio guida. Questo approccio si distacca in maniera significativa da vari aspetti tradizionali del pensiero liberale, si allontana da un eccesso di razionalismo, dall’idea di individuo come separato dagli altri e dall’imperativo dell’imparzialità. Al contrario, pone al centro la rete di relazioni tra le persone, la nostra vulnerabilità e interdipendenza e le responsabilità reciproche, a motivo delle relazioni che tra noi intercorrono. L’idea di fondo di molte teoriche della cura è che questo principio debba modellare non solo le relazioni interpersonali e le scelte morali, ma anche le decisioni dello stato in virtù della nostra comune natura di individui vulnerabili.
The Care Manifesto e le crisi della cura. La questione centrale diviene dunque come si debba immaginare una società che mette al centro la cura. Sebbene alcune proposte in tal senso siano state elaborate da teoriche del femminismo, nel dibattito pubblico non sono molti gli interventi che disegnano i contorni di una società della cura in maniera chiara ed efficace. Questo è il compito che si è dato invece un recente saggio, The Care Manifesto, pubblicato in Inghilterra da Verso ad agosto dello scorso anno e uscito a marzo di quest’anno in Italia per edizione Alegre grazie alla traduzione di Marie Moïse e Gaia Benzi con la prefazione di Sara R. Farris e la postfazione di Jennifer Guerra. Nel saggio – che ha per esplicito sottotitolo ‘La politica dell’interdipendenza’- i componenti del Care Collective, studiose e studiosi di varie discipline che da anni a Londra lavorano su questi temi, riflettono sulle molteplici crisi della cura che attraversano le nostre società e immaginano modi in cui affrontarle.
Anni di politiche di riduzione della spesa pubblica e un modello economico-sociale incentrato sul profitto hanno portato ad una situazione in cui lo stato non è nelle condizioni di fornire cure adeguate attraverso servizi di welfare, come si è visto in maniera drammatica, per effetto dei tagli e della privatizzazione della sanità, durante la pandemia. La mancanza di cura si rivela altresì nella risposta che governi e individui danno ad altre crisi nazionali e transnazionali, come quella migratoria e quella climatica. In ambito inglese e americano ma in misura minore anche in Europa, tutto ciò si accompagna poi ad una retorica incentrata sulla responsabilità individuale, secondo la quale le persone devono essere in grado di cavarsela da sole. Il risultato di tutto questo non sta soltanto in uno stato che non si prende cura dei suoi cittadini ma anche in comunità che hanno meno risorse per la cura reciproca. La cura diventa quindi sempre più privatizzata, una merce da acquistare da coloro che hanno i mezzi per farlo. Infine, come abbiamo ampiamente avuto modo di osservare negli ultimi mesi, le mancanze di cura da parte dello stato e della società sono invariabilmente sopperite dalle famiglie e al loro interno dal lavoro delle donne. In questo senso, proporre, come fanno autrici e autori di questo libro, un modello della cura universale come principio ispiratore della politica non solo non svantaggia le donne, come si potrebbe pensare, ma ha invece il risultato opposto. Portando la cura al centro della riflessione politica come compito dello stato e della società tutta, si mette in discussione l’assunto, implicito ed esplicito, che questa sia compito esclusivo delle donne, assunto che svantaggia e limita l’autonomia e libertà femminile.
Per una politica della cura. Cosa vuol dire quindi immaginare un modello di società che mette al centro la cura? Nel Manifesto una delle questioni più interessanti è quella della ‘cura promiscua’ ovvero l’invito ad immaginare non solo modi alternativi di prendersi cura l’uno dell’altra ma anche comunità di cura che trascendano i confini della famiglia nucleare. Seguendo modelli diversi come quello delle families of choice della comunità LGBTQ+ negli anni Ottanta e Novanta o delle famiglie allargate anche al di fuori dei legami di sangue nelle comunità afroamericane degli Stati Uniti, si possono immaginare vari tipi di comunità e anche coabitazioni in cui la cura reciproca, inclusi quella dei figli e il lavoro domestico, sono compito di tutti e distribuiti in maniera egalitaria. Questo ci porta ad apprezzare l’importanza di essere parte di comunità di cura locali, come gruppi di quartiere, dimensione spesso ignorata in un mondo, soprattutto quello delle generazioni più giovani, sempre più globalizzato e mobile. Stimolante è anche la riflessione sugli elementi necessari per costruire tali comunità, come il mutuo supporto e la democrazia interna, ma anche l’avere a disposizione spazi pubblici e risorse condivise. Se pensiamo ai recenti appelli a ripensare le città nel post-pandemia, appare opportuno quindi ragionare su spazi e risorse comuni che permettano la creazione di comunità di cura.
Passando alla riflessione macro, quella sullo stato, l’invito è quello di riprendere le fila di molte delle promesse dello stato sociale del secondo dopoguerra relative ai beni e servizi pubblici, portando però avanti una critica di impronta femminista e antirazzista delle istituzioni esistenti e del loro paternalismo. Uno stato che si prende cura è uno stato che si basa sull’idea della comune interdipendenza e sul contributo che tutti e tutte possono fornire agli altri, invece che fondarsi su confini e appartenenze etnico-culturali. Tutto ciò motiva, secondo il collettivo, una critica forte all’economia e alle logiche di profitto e mercato che si impadroniscono di sempre maggiori porzioni dell’esperienza umana, incluso l’universo della cura, che viene privatizzata e venduta alla stregua di qualunque altra merce. La logica della cura deve al contrario diventare prevalente in tutte le sfere della vita sociale, economica e politica, portando ad una maggiore regolamentazione dei mercati, ma anche a modelli di produzione, proprietà e scambio diversi, più cooperativi e democratici, ma anche meno globali e più locali.
Una riflessione seria sulla cura porta anche a ragionare sulle diseguaglianze a livello planetario e sul rapporto con il pianeta che abitiamo. La maniera principale in cui i paesi occidentali rispondono al crescente bisogno di cura è infatti quella di impiegare, nel settore pubblico e in quello privato, uomini e soprattutto donne provenienti dai Sud del mondo, spesso in condizioni di precarietà e sfruttamento, mentre prendere sul serio la nostra interdipendenza comporta considerare gli obblighi di cura verso le altre specie e l’ambiente e, di conseguenza, affrontare l’estrema gravità della crisi climatica e agire per mitigarne gli effetti, con provvedimenti come il Green New Deal.
Guardando al futuro. In ultimo: il Manifesto della Cura ha il merito di andare oltre il semplice appello per una politica e una società centrate sulla cura e di fornire, in stile chiaro ed incisivo, sostanza e contenuti a questa proposta. Alcune di queste idee, specialmente per quanto concerne la critica allo stato e al modello economico neoliberista, non sono ovviamente inedite e sono state negli ultimi anni spesso discusse a sinistra. Affrontare questi e altri temi sotto il cappello della cura e dell’incuria ha però il vantaggio di fornire gli strumenti per una critica unitaria di vari e spesso apparentemente slegati aspetti delle società contemporanee. Allo stesso tempo può fornire un punto di partenza coerente e femminista per sviluppare un modello positivo di comunità, partendo da uno dei temi principali del femminismo, ovvero l’iniqua distribuzione della cura, ma anche la sua importanza e ineludibilità come fondamento dell’esperienza umana. Molto ancora bisogna discutere intorno alle pratiche di cura, senza dimenticare rischi e limiti di alcune, ma questo manifesto pone interessanti basi per intraprendere una riflessione necessaria.
In apertura: foto di Papaioannou Kostas/Unsplash