Il direttore d’orchestra greco debutta alla Scala. La sua qualità più evidente sembra essere la spontaneità con cui riesce a far arrivare al pubblico la meraviglia che sembra intuire nella musica che esegue
Profumo di scandalo lunedì sera alla Scala per il debutto a Milano di musicAeterna, calati dagli Urali con tutto il loro mistero per entusiasmare metà del pubblico della Filarmonica e irritarne l’altra metà. Il vate dell’ensemble è il greco Teodor Currentzis, che dal 2004 impone un’educazione siberiana ai suoi musicisti, che oltre a suonare in piedi pare siano costretti a ore e ore di prove anche su un singolo accordo, ma che hanno imparato a seguirlo come un’emanazione del suo pensiero. Uno di quei concerti che fa discutere fin da prima di entrare in sala per verificare se e quanto sia rivoluzionario, talentuoso e provocatorio questo sciamano in jeans skinny autoesiliatosi in una grigia stazione della Transiberiana, Perm, in attesa che tutto il mondo parlasse di lui.
Con un po’ troppa anarchia dichiarata il direttore ha presentato un programma tutto Beethoven più l’ouverture delle Nozze di Figaro, eseguita due volte, in versione veloce e in versione supersonica, delirante e al limite del circense, ma molto divertente. Prima però il Terzo Concerto in do minore con Alexander Melnikov come solista non indimenticabile al fortepiano, mentre nella seconda parte niente meno che la Settima: pagine sfacciatamente note che Currentzis esegue come se le avesse appena scoperte. Perché la qualità più evidente di questo direttore senza podio è la spontaneità non artificiale né da marketing con cui si entusiasma per la musica che esegue. Non si può negare che manchi in lui, nel suo gesto non bello e nei suoi balletti sconvenienti, il senso di una missione. Non missione per conto di Dio, alla Blues Brothers, ma la ricerca di un’altra dimensione, artistica, estatica o comunque la si voglia chiamare: Currentzis sembra ricordarci che ogni momento musicale è un’intensificazione della realtà e per questo ha bisogno di altri tempi e luoghi rispetto ai soliti “qui” e “ora”.
A volte la strada imboccata non sembra funzionare: i movimenti lenti, sia nel Concerto sia nella Sinfonia, non raggiungono il languore che le prime offuscate battute sembrano presagire. Ma in altri passaggi insospettabili Currentzis tocca punte di insolita bellezza, come nel trio dello Scherzo, che passa dalla dolcezza di una ninna nanna a una specie di valzer straussiano, o nella rincorsa del finale tra il dionisiaco e il mefistofelico in cui sembra puntare dritto a Stravinskij.
Strumenti originali a parte, non sembra esserci alcuna riflessione filologica in lui: l’impressione è anzi che voglia liberare la musica dai tanti (troppi) vincoli intellettualistici che ci si aspetta da ogni sala da concerto che si rispetti. Invece per questo direttore greco-russo la musica è davvero solo un gioco, ma alla Schiller, nel senso di quel mondo idealizzato che un bambino vuole continuamente scoprire e riscoprire. E per arrivarci serve la formula magica di quel dramma di Horváth il cui titolo forse piacerebbe al direttore: Glaube, Liebe, Hoffnung, vale a dire fede, amore e speranza. Non a caso tra le curiose attività extramusicali del direttore c’è un film mai uscito, Dau, a quanto pare impossibile da montare, in cui fa la parte del fisico russo Lev Landau, un altro personaggio un po’ hippie che ha dedicato la vita a scandagliare il mondo con il suo spirito radicale.
Su alcuni punti non si può dare torto ai detrattori di Currentzis, il quale in effetti non sembra essersi preoccupato più di tanto delle caratteristiche acustiche della sala e con tutta evidenza non riserva le stesse attenzioni date ai suoi archi tutti in piedi alle altre sezioni dell’orchestra. Ma allo stesso tempo le scelte del direttore non hanno niente di gratuito e non si limitano a qualche metronomo insolito, perché in ogni pagina si percepisce la coerenza della sua ricerca sul suono, forse non infallibile ma costante e, senza voler fare retorica, nuova.
È come se un turbine intelligente, per citare Glenn Gould, avesse attraversato la Scala l’altra sera con il suo suono di strana bellezza, non vellutata o sensuale ma frenetica, meccanica eppure, misteriosamente, sempre espressiva. Un suono che proveniva dai gesti teatrali, forsennati, persino aggressivi – a volte sembra prendere a pugni i suoi orchestrali tramutati in servi di scena – di un direttore che ha l’unico scopo di far arrivare al pubblico quella meraviglia che forse è riuscito a intuire.