Per la rassegna DonneTeatroDiritti, al Pacta Salone di via Dini fino a domenica 10, Ksenjia Martinovic, ispiratissima, riporta in scena la guerra nel Kosovo con uno spettacolo potente e pieno di grazia, una voce di donna che si confronta con la guerra, la responsabilità e la colpa.
“La guerra è banale. Soffrono quelli in nome dei quali tutto è iniziato”, i popoli in nome dei quali le guerre si dichiarano, sulla pelle dei quali, però, si combattono. Forse è ancora presente, pur se allontanata da memorie più recenti, il ricordo della guerra in Jugoslavia, e il nome di Milosevic. Lo è meno, però, la guerra che segue. Quella che a partire dal 24 marzo 1999 fa piovere bombe su Belgrado, a seguito dell’invasione del Kosovo da parte delle truppe del dittatore Milosevic, e della risposta della Nato, in cui ci trasporta Noi saremo felici ma chi sa quando, in scena al Pacta dei Teatri.
La stessa Belgrado che una bambina di dieci anni lascia, dopo essersi sciolta dall’abbraccio di una madre che non può accompagnarla, attraversando a piedi il confine verso quello di un padre che non può raggiungerla. Quella bambina è Ksenija Martinovic, e dal suo corpo di attrice nata a Belgrado e partita bambina per l’Italia si fa eco di quello di una drammaturga, Biljana Srbljanovic, che invece ha scelto di restare. E di raccontare, per l’Italia, dalle colonne de La Repubblica, attraverso un diario intenso e dolorosamente poetico, che oggi trova un uditorio che sente gli echi di quelle bombe ancora più vicine, dimenticando forse la colpa di averne ignorate tante.
C’è invece bisogno di rievocarla nella sua dignità singolare, la storia di un paese unito dalla memoria costruita fin dall’infanzia della battaglia sulla Piana dei Merli, dove le peonie si tingono di rosso, violando e specchiando il giardino segreto di migliaia di infanzie, come quella di Ksenija, che cammina bambina sul bordo di un confine attraversato come chi sa di dover scegliere tra la vita e la morte, come oggi fanno i ragazzi che si piagano i piedi lungo la rotta balcanica. Venticinque anni e pochi giorni fa, invece a Belgrado, c’era chi era chiamato a scegliere tra rischio e acqua nei rubinetti, bombe ed energia elettrica. E – con le valigie già chiuse, sceglie invece di restare. Lunga camicia bianca e gambe esposte al freddo, piedi protetti appena da scarpe consumate, per muoversi dentro un prato fiorito di rosso ormai sbiadito che si è trasformato in quello di un campo minato, un labirinto da cui cercare di uscire vivi e dentro cui si rischia ogni momento di perdersi. In una scelta scenografica di grande effetto evocativo, la regia di Paolo Bignamini fa abdicare fiori imprigionati nel collo stretto delle bottiglie, bellezza costretta, all’uso della guerra, di quando l’acqua non c’è più. E i fiori cadono come i corpi sotto le bombe, a corona di una vasca che non lava via l’angoscia, mentre la polvere sporca tutto ed evoca la labilità del reale.
Ma anche delle categorie di giusto e sbagliato, se è vero che la scelta intelligente di raccontare la Storia attraverso quella individuale, senza mai farne didattica, apre l’interrogativo sul concetto della colpa.
Quale colpa, quale responsabilità, si porta addosso un popolo, nell’aver scelto il dittatore per il quale si muore? Valeva nella Germania nazista, valeva nella Belgrado falcidiata di morti civili a cui viene dato il nome insultante di danni collaterali e vale, oggi, molte altre volte, fino alle nostre responsabilità verso chi sta compiendo nuove migrazioni. La risposta non può essere banale e per fortuna non prova ad esserlo, ma non elude – al contrario, impone – la domanda: “cosa devo fare per dimostrare al resto del mondo di essere abbastanza umana e abbastanza disperata da aver diritto all’acqua e all’elettricità?”.
Mentre in un’altra lingua risuona la felicità lontana di canzoni che riconosciamo, la realtà restituisce il suono duro delle sentenze di morte pronunciate dai generali: bombardare fino a farli impazzire. “In nome del nazionalismo o della democrazia?”. Durante la guerra si soffre, vergognandosi della propria colpa se il gioco della guerra dei potenti ha deciso si rivesta la parte dei cattivi, mentre i bambini invecchiano a vista d’occhio, sacrificando alle bombe pezzi di sé o – nel migliore dei casi, della propria vita. A guerra finita, invece, si soffre la colpa di chi può andarsene, di chi ha trovato le parole per raccontare, e le ha viste – loro si – camminare lontane, libere dai confini e cariche del peso di dovere spiegare, far vedere, far sentire.
Potendo contare su un testo ottimamente scritto, Martinovic riempie la scena con un’intensità mai sopra le righe, che commuove senza diventare sentimentale, e dimostra che si può raccontare l’orrore con grande eleganza, come raramente se ne vedono. Ne emerge un lavoro di assoluta qualità, da non perdere. Per il suo valore artistico, prima ancora per che l’urgenza, quale che sia la latitudine dalla quale si sente risuonare la prossimità di queste parole, che chiude lo stomaco perché parla, comunque, di noi e di oggi. E anche per concedersi le lacrime, necessarie, di chi attraverso la scena si riconosce il diritto e il dovere, anche quando c’è, di “piangere un’insanguinata pace”.
Foto di copertina: Federico Buscarino