Da Helsinki a New York, passando per Parigi, la nostalgia (e il disincanto) di Elvis Costello

In Musica

Inciso nelle tre metropoli, Hey clockface, ultimo album del grande musicista britannico, è una sequenza di ballad memorabili, che parlano dell’amore, delle sue incomprensioni tra verità e menzogna, del tempo che fugge…

Forse è più tardi di quanto si creda. Forse è tempo di bilanci, non sono allegri e la voce nel microfono, quello che canta dentro nei dischi avrebbe detto Enzo Jannacci, scopre che “il tempo è solo mio nemico”. Circola un disincanto palpabile, acuito da sprazzi di nostalgia, folate di derisione e raffiche di gelido furore nichilista, nel nuovo Hey clockface di Elvis Costello. Come se Bob Dylan e Randy Newman si fossero trovati in una jam session con Bacharach. È il suo 31° album, no, forse il 34°: con l’imprevedibile e mercuriale londinese di ascendenze irlandesi Declan Aloysius MacManus, questo il suo vero nome, tutti i conteggi si imbrogliano di fronte alla marea di dischi solisti e di collaborazioni, di ospitate e ristampe tutte con la scaletta dei brani diversa, giusto per fare impazzire lo zoccolo duro dei fedelissimi.

Un album ai tempi del Covid, dopo l’acclamato Look now del 2018 che gli ha fruttato un Grammy, l’unico della sua carriera, dopo Wise up ghosts del 2013 con il gruppo di “art hip-hop” The Roots. L’ultimo, aveva giurato allora: si avvicinava ai sessant’anni (Costello è nato nell’agosto 1943) e voleva stare accanto ai figli e alla moglie Diana Krall, avrebbe suonato in giro soltanto se avesse avuto bisogno di soldi. Poi ci ha ripensato e adesso, dice in una videointervista, è pronto a partire per un nuovo tour.

Un album ai tempi del Covid inciso a Helsinki (tre brani, rock sferragliante come ai bei tempi dell’esordio e un curioso disco-boogie, con il nostro in perfetta solitudine a suonare tutti gli strumenti), a Parigi (con un Quintette Saint-Germain reclutato per l’occasione dal pianista e tastierista Steve Nieve, suo compagno di scorribande musicali fin dai tardi ’70) e a New York (due brani di sapore sperimentale con il chitarrista jazz Bil Frisell), e mixato a Los Angeles.

L’esperienza più soddisfacente, forse, è stata quella francese. Racconta Costello: «Ho cantato dal vivo in studio, dirigendo dalla cabina per la voce. Abbiamo realizzato nove canzoni in due giorni, parlando molto poco. Quasi tutto ciò che i musicisti suonavano era in spontanea risposta a ciò che io stavo cantando. Registrare in questo modo a Parigi era da tempo un mio sogno».

Un sogno non impossibile per chi come Costello, nato sotto il segno di un rock aguzzo e scarno (l’album di esordo è l’acclamato My aim is true del 1977, con l’evergreen Allison e la sferzante Less than zero che tuona indignata contro il fascista Oswald Mosley ospite senza contraddittorio delle emittenti televisive), fa girare da subito a motore a mille con la backing band degli Attractions (This year’s model del 1978 è già un capolavoro), allarga gli interessi al soul e al country e soprattutto, sotto il segno di un eclettismo colto e vorace, si scopre melodista raffinato e di vaglia, acuto rilettore e rinnovatore del songbook classico americano.

Le incursioni in casa d’altri si moltiplicano: un album bellissimo come Painted from memory (Mercury, 1998) con Burt Bacharach, la scoperta di New Orleans assieme alla leggenda Allen Toussaint (The river in reverse del 2006), la duratura collaborazione con Paul McCartney, lavori d’impianto colto per la Deutsche Grammophon (con la London Symphony Orchestra, con il Brodsky Quartet) che la critica anche classica accoglie con favore.

E ballad come la stupenda Shipbuilding del 1983 che ospita l’assolo struggente di Chet Baker alla tromba e vede la guerra delle Falkland con gli occhi degli operai disoccupati nell’Inghilterra thatcheriana, che dalla costruzione delle navi da guerra avranno temporaneo benessere, il denaro per i cappotti e le scarpe dei familiari, e lutti incancellabili, con i loro figli mandati a morire per niente; o come l’altro capolavoro I want to vanish, reinterpretato in maniera egregia anche dalla regina del folk inglese June Tabor e dalla mezzosoprano Anne Sofie von Otter.

Così, l’autore di un reggae-rock tra i più ispidi di sempre (Watching the detectives del 1980) e che, paradossalmente ma non troppo, è diventato noto al pubblico mainstream soprattutto con She, cover inglese di Elle di Charles Aznavour (53 milioni di ascolti su Spotify e 26 milioni di visualizzazioni su YouTube: era nella colonna sonora di Notting Hill con Julia Roberts e Hugh Grant), non è arrivato impreparato all’appuntamento parigino.

Eccolo, dunque, in Hey clockface, comandare dalla cabina della voce pianoforti – a coda, verticale – e mellotron, organo e melodica, tromba flicorno e serpentone, violoncello e percussioni, tre clarinetti – in si bemolle, basso e contrabbasso – e , per non farsi mancare niente, sax tenore, flauto basso e corno inglese. Il frutto è una sequenza di ballad memorabili, che hanno per oggetto l’amore e le sue incomprensioni – la mancanza di empatia fra gli esseri umani è, da sempre, un leitmotiv di Costello –, il tempo che fugge, il balletto sottile tra verità e menzogna che condiziona i rapporti.

I frutti migliori? Il recitativo austero, retto da un tappeto arabeggiante, di Revolution # 49. La New Orleans malinconica e autunnale di Zula’s song (I do), il contrappunto venato d’ansia di They’re not laughing at me now, il post-swing di Hey clockface che recupera (e cita nei credit) un gigante del jazz classico come Fats Waller, la sofisticata e introspettiva What is it that I need that I don’t already have, la conclusiva Byline che intona la cerimonia mesta dell’addio.

Un senso di abbandono e di allarme, una densa nostalgia, umori distopici da “non ne vale più la pena” connotano anche le composizioni più aspre e taglienti. Come We are all cowards now, soprattutto come No flag. «Non ho religione/ Non ho filosofia/ Ho una testa piena di idee e parole che non sembrano appartenermi/ Forse scherzi ma non capisco la battuta/ Non intravedo nessun futuro/ Ma il tempo sembra trascinarsi/ Non c’è tempo per questo tipo di amore/ Nessuna bandiera sventola lassù/ Nessun segno per il luogo buio in cui vivo/ Nessun Dio per il niente che me frega/ Non ho più illusioni/ Non ho avuto nessuna epifania”. È una recita, non è detto che sia vita che si strappa la pelle di dosso, anche se il rock ha imparato a usare l’autofiction molto prima che lo facessero i romanzieri.

(Visited 1 times, 1 visits today)