Da quel cappello di paglia affiora l’innocenza disarmante di Nino Rota

In Musica

La Scala riparte con il musicista italiano, che iniziò a comporre “Il cappello di paglia di Firenze” a 34 anni. Una farsa in cui succede tutto e niente ma la cui musica ha l’agilità di una farfalla. Dirige con mano sicura Donato Renzetti che conosce benissimo l’opera

Di ritorno dalle vacanze, la Scala si concede l’operina deliziosa di un bambino. Un bambino nel cuore e nell’anima, perché Nino Rota – l’autore – quando pensò e iniziò a comporre Il cappello di paglia di Firenze – l’opera – aveva 34 anni, ma conservava (e non l’avrebbe mai persa) una disarmante innocenza nell’inventare musica con l’agilità di una farfalla. Non era un bambino nel 1944-45, e la vita non sorrideva a nessuno, ma Nino Rota si mise a scrivere insieme alla mamma Ernesta – sì, c’è anche la mamma, pianista di talento – un libretto sui cui far volteggiare una farsa senza capo né coda, presa da un vaudeville francese di cent’anni prima, firmato Labiche e Marc-Michel. Non era un bambino e sapeva certe cose su cui i piccoli hanno ancora bisogno di qualche informazione – quel che un maschietto e una femminuccia fanno quando si trovano da soli, quanti doppi fondi nasconda un matrimonio, che cosa risvegli l’avventura di una moglie in un marito noioso – ma quando ancora nei cieli d’Italia volavano i bombardieri, o proprio per quello, a Nino Rota venne voglia di giocare con una trama candida e spensierata. 

Nel Cappello di paglia di Firenze succede tutto e niente. In quattro atti e cinque quadri, però veloci, velocissimi (un paio d’ore di musica), tredici  personaggi s’intrecciano in una danza degli equivoci appesa a una sciocchezza: il cavallo di un certo Fadinard s’innamora di un cappello di paglia appeso a un albero e se lo mangia. Anaide, uscita di casa al mattino per una passeggiata (si fa per dire) con Emilio, tenente dell’esercito, non può proprio tornare a casa senza quel cappello: monsieur Beaupertuis sarà anche stupido, ma è sempre un marito, e sospetta. Fadinard deve trovarne uno identico, subito, perché i due amanti non lasceranno casa sua finché il modellino non verrà rimpiazzato, identico. Problema: Fadinard quel giorno ha qualcosa da fare; sposarsi con Elena, inseguito dal quasi-suocero Nonancourt, ruvido contadino che infuria per essere stato trascurato insieme a otto carrozze di invitati. Un cappello di paglia di Firenze non si trova nemmeno dalla Modista (una “ex” di Fadinard): l’ha venduto alla Baronessa di Champigny, che l’ha donato alla figlioccia, appunto Madame Beaupertuis, che lo reclama in lacrime. Agli ospiti della baronessa, che attende il famoso violinista Minardi e lo confonde con Fadinard, si mescolano i parenti della sposa, che vengono dalla campagna e scambiano il salone del palazzo per il ristorante il “Vitel poppante”. E il cappello di paglia di Firenze? Fadinard se lo ritrova in mano quando ha perso ogni speranza: nella cappelliera lasciata dallo zio Vézinet come regalo di nozze. Era lì fin dall’inizio. Salvo è Fadinard, salvo il suo matrimonio ancora da consumare e salvo quello già consumato di madame Beaupertuis. Con quel cappello in testa, il marito è convinto che lei non l’abbia tradito, e Fadinard passa perfino per gentiluomo.

Su un accumulo di tante inezie, alla ricerca di una cosa inutile, Nino Rota incastra i mattoncini di un Lego teatrale svelto ed elegante, immerso in un torrente di acqua-azzurra-acqua-chiara, come ne avrebbe scritta un altro italiano baciato dal dono della melodia. Musica in cui Nino Rota, orgoglioso della sua “inattualità”, riversava una vena tematica inesauribile, una rassicurante tonalità, un tocco infallibile nel citare Rossini, Puccini, Ravel e anche Casella, Pizzetti (suoi maestri) e infiniti altri, sfoderando arie e “canzoni”, declamati e roulades, facendo saltare sulla punta delle dita stili e linguaggi come un mago delle forme. Insomma tutto quello che nel cinema, coltivato per una vita, avrebbero amato e cercato Fellini, Visconti, Zeffirelli, Coppola, Castellani, Zampa. Un gioco di forme, stili e linguaggi in cui perfino rime tenere e rischiose – “Se non dicevo d’essere Minardi, mi cacciavan senza riguardi” – sono i disegni giusti per confezionare un teatro a colori come un librino di Leo Lionni

Ora che l’idea di musica contemporanea non guarda con mascella dura e occhio cattivo quel che Nino Rota dispensava con graziosa scioltezza anche su grande schermo, un’opera come Il cappello di paglia di Firenze, di cui Strehler fece un capolavoro di teatro alla Scala (1958-59) e Pier Luigi Pizzi l’allestimento del definitivo riscatto (1987) – senza dimenticare il precedente del film di René Clair (1928) – può finalmente arrivare al pubblico senza sensi di colpa, come dimostra l’entusiasmo intergenerazionale di questi giorni (due repliche ancora, il 14 e il 18).

La prima produzione del dopo-vacanze, la Scala la riserva per consuetudine all’Accademia. Se fosse ancora vivo, per i giovani che si formano alla Scala come artisti di domani, Rota sarebbe stato felice di scrivere un’opera apposta. Con Il cappello di paglia di Firenze è come se ci avesse già pensato. L’attitudine, la disposizione, l’entusiasmo con cui cantanti, mimi, coristi, strumentisti della “scuola” si dedicano a questo pezzo di teatro un tempo trattato con degnazione, anzi non trattato per niente, sono nell’esatto spirito che Nino Rota si augurava animasse i suoi interpreti. 

Lo spettacolo è nelle mani del giovane Mario Acampa, che da tempo congegna con arguzia gli spettacoli per bambini in cui i titoli del grande repertorio sono tagliati su misura per loro. (Bambini, sempre bambini). La scena unica che ruota su sé stessa è lo strumento giusto per dare spazio e visibilità ai molti piccoli luoghi, interni ed esterni, in cui la trama svaria. La gestualità è curata per servire il tratto scanzonato della farsa. Logico e più che accettabile aver evitato il cavallo che mangia il cappello, in nome di una giusta attualizzazione di scene (Riccardo Sgaramella) e costumi (Chiara Amaltea Ciarelli) che si allinea alla modernità (vera, finalmente riconosciuta) della musica di Rota. Meno facile è capire che, come spiega Acampa nelle note di regia, da agiato parigino Fadinard sia diventato un semplice operaio della E. Rota et Fils, modisteria d’antan. Plausibile che tutta la folle giornata del Cappello di paglia a Fadinard sembri un sogno, ma non basta farlo sdraiare davanti alla porta della Manifattura per gettare nuova luce sulla frenesia che l’ha mossa, la giornata.

Lo spettacolo, comunque, gira veloce, diverte, si tiene per mano alla verve dell’ Orchestra dell’Accademia, al coro ben impostato da Salvo Isgrò, al tenorismo aereo di Pierluigi D’Aloia (Fadinard), al Beaupertuis di Vito Priante, al basso tonante di Huanhong Li (Nonancourt), alla tenera Elena di Laura Lolita Perešivana, al canto ansioso di Anaide (Greta Doveri), all’Emilio focoso di William Allione (questi i protagonisti alla prima recita del 4 settembre, ma altri dodici corrono con loro). Tutti guidati con mano sicura e ammirevole da Donato Renzetti, che (anche lui) ha l’opera italiana sulla punta delle dita e nella sua scatola dei colori le tinte che servono all’album di Nino Rota.

Foto Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala

Teatro Alla Scala di Milano Nino Rota Il Cappello di Paglia di Firenze. Dirige Donato Renzetti, regia di Mario Acampa (repliche: 14, 18 settembre)

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