Con “Il buco”, premio speciale della Giuria a Venezia, torna Michelangelo Frammartino, 10 anni dopo l’apprezzato “Le quattro volte”. E racconta la straordinaria impresa, all’epoca poco valorizzata, di un gruppo di speleologi che nel ’61 esplorarono per primi l’Abisso del Bifurto, nel Pollino, complesso di grotte tra i più profondi al mondo. Entrando in contatto con la Calabria rurale e arcaica dei pastori
Ci sono due percorsi di esplorazione, materiale e esistenziale, che si sviluppano parallelamente in Il buco di Michelangelo Frammartino, scritto insieme a Giovanna Giuliani, il film italiano più apprezzato, con il premio speciale della giuria, all’ultima Mostra di Venezia. La prima è quella, storica ma poco nota, di un gruppo di speleologi, per lo più piemontesi, “del Nord” come sottolinea il film che del resto si apre, nel segno del divario tra le “due Italie”, con un reportage televisivo d’epoca sul grattacielo milanese della Pirelli. Il gruppo arriva nella Calabria rurale dei primi anni 60, per scendere ai quasi 700 metri sotto il livello del terreno dell’Abisso del Bifurto, nel massiccio del Pollino, che Frammartino omaggia, come meglio non potrebbe, con i suoi piani a camera fissa ma ricchi di movimenti interni di nuvole, natura, animali, pastori, tutti da scoprire con gioia. Allora (1961) era il terzo complesso di grotte più profondo al mondo, ma l’impresa fece poco notizia, e scarsa fu anche la simbiosi tra i giovani scienziati e gli abitanti di in una terra la cui vita e i cui riti sembravano venire da un’altra epoca. Con l’eccezione dei bambini, curiosi come sempre, e innamorati di quei caschi con le lampadine che facevano luce in paese anche la notte.
Il secondo tragitto esplorativo è quello di Zi’ Nicola (interpretato da Nicola Lanza), che nei pochi giorni in cui dura l’azione del film terminerà la sua vita andandosene in punta di piedi, a due passi dal “buco” dove si calavano i “piemontesi” (discendenti forse di quei soldati che un secolo prima si erano impadroniti con le armi della Calabria), quasi scortato, umanamente e concretamente, dal figlio e dai compaesani/amici, e dal medico condotto di San Lorenzo di Bellizzi. Un uomo il cui volto è scolpito dall’età, come le rocce dell’abisso che costantemente e in parallelo vediamo nel film: nel film lo ascoltiamo soprattutto dialogare affettuosamente con i suoi animali, parte di un mondo che nonostante l’evidente povertà ha un suo equilibrio umano, morale. E che mai diventa, grande merito di un lavoro che è tutto fuorché risarcitorio o peggio ancora permaloso, l’immagine ormai retorica dell’altra Calabria da opporre a quella delle città violente e criminali. Al perenne memento della ndrangheta come riferimento obbligato.
Il regista, che è milanese ma di famiglia calabrese, mostra prima di tutto un affetto, un rispetto e perfino uno stupore incantato per la bellezza del panorama montano, sintetizzati nella sua descrizione di “una terra informe, incredibile, un non-finito, qualcosa di connaturato alla cultura italiana stessa”. Tutto questo si vede in massimo grado qui, come del resto nel suo altro film più noto, Le quattro volte (2010, passato al Festival di Cannes), che aveva con altrettanto affetto omaggiato la dura vita di un altro pastore di quelle montagne: e ritorna il suo gusto spiccato per la relazione tra gli spazi concreti, le persone e la presenza dell’immagine, al centro di un cinema che parte innanzitutto dalla bellezza fotografica. Grande riconoscimento merita Renato Berta, straordinario direttore della fotografia che può contare, tra le oltre 100 collaborazioni con registi come Tanner, Godard, Resnais, Rohmer, Goretta, Guediguian, De Oliveira, Gitai, un lontano César per Arrivederci ragazzi di Louis Malle e un vicinissimo analogo impegno per l’altrettanto riuscito Qui rido io di Mario Martone.
Il racconto non disdegna nemmeno qualche lentezza descrittiva, giocata con misura e precisione soprattutto in senso psicologico, profondo, abissale verrebbe da dire visto il tema, ma questo non impedisce a Frammartino di costruire una vera avventura dello sguardo, letteralmente vertiginosa lungo le scale pericolanti e le funi su cui scendono e salgono gli speleologi. Impegnati a cancellare progressivamente le tenebre con la luce dei loro caschi, in una sorta di materializzazione cinematografica delle idee chiare ed evidenti della filosofia cartesiana, e poi illuminista, destinate a prevalere sul buio mentale dell’oscurantismo.
Il buco di Michelangelo Frammartino, con Paolo Cossi, Jacopo Elia, Denise Trombin, Nicola Lanza, Antonio Lanza, Leonardo Larocca, Claudia Candusso, Mila Costi, Carlos Jose Crespo