Danae Festival – il racconto

In Teatro

Intervista ad Attilio Nicoli Cristiani, direttore artistico insieme ad Alessandra De Santis del Teatro delle Moire e di Danae Festival, per comprendere come la ricerca e la performance trasformino il tessuto urbano milanese

C’è un festival a Milano che da diciannove anni fila, tesse e cuce il tessuto metropolitano della danza, della performance e della ricerca sul movimento. È Danae Festival, ideato e curato dal Teatro delle Moire, in particolare nelle persone di Alessandra De Santis e Attilio Nicoli Cristiani, che ogni anno a novembre propongono un appuntamento vissuto nella città di Milano con l’intenso piacere della scoperta di artisti e di luoghi. Questo è quello che rende Danae un festival profondamente innovativo e superbamente esotico: perché apre con coraggio alla sperimentazione e, grattando via la tipica patina pubblicitaria milanese, accende e riattiva luoghi non convenzionalmente teatrali o performativi, proponendo ricerche artistiche di rara qualità. Quest’anno, tra le numerose proposte, è toccato al Parco Nord ospitare una fenomenale e inquietante performance di Rudi Van der Merwe, diventando paesaggio naturale di una guerra atroce, di madame velate e croci bianche. Che a Cinisello Balsamo non ti aspetti. Così come lo spiazzo davanti all’Arco della Pace è diventato un terreno di poetiche dichiarazioni danzate nel delicatissimo lavoro del danzatore di origine greca Joannis Mandafounis, One One One, una performance in cui due danzatori sigillano lo sguardo con uno spettatore ciascuno e danzano per lui, in una danza intima e potente, che attirava l’attenzione anche del più frettoloso via vai milanese, a passeggio nel parco o forse diretto a un brunch domenicale in qualche locale di corso Sempione. Abbiamo anche potuto vedere i favolosi corpi in movimento di Cinzia Delorenzi, Annamaria Ajmone, Silvia Gribaudi, Francesca Foscarini e tanti altri. Sono i corpi che creano i luoghi e questo sembra essere la dichiarazione politica di Danae Festival a Milano.

Via Porpora, seminterrato in un complesso di residenze popolari dell’Aler, Attilio Nicoli Cristiani, direttore artistico insieme ad Alessandra De Santis del Teatro delle Moire e di Danae Festival mi accoglie dopo aver appena saputo di nuovi episodi di vandalismo di una banda di adolescenti del quartiere, a Milano la rabbia impara presto a camminare e parlare.

Attilio, partiamo dal LachesiLab, la sede del Teatro delle Moire. Come abitate questo particolare quartiere?

Attilio: dopo anni di vagabondaggi tra scantinati e sale in affitto e dopo ricerche bloccate dallo sconforto dovuto a richieste economiche troppo ingenti, abbiamo conquistato, per una serie di fortunate coincidenze, questo posto, che ancora una volta è un seminterrato, che prima del nostro arrivo era frequentato soprattutto da tossicodipendenti e prostitute – all’ingresso c’erano cumuli di siringhe e di fianco c’era pure un materasso abbandonato. La nostra presenza ha cambiato il tipo di frequentazione e anche per questo gli inquilini del palazzo ne sono stati felici. Il nostro obiettivo non era “riqualificare” una zona, ma solo avere un luogo per la nostra ricerca teatrale e involontariamente ci siamo trovati a cambiare le energie in circolo. Questa zona poi è particolare, siamo dietro Corso Buenos Aires, non siamo in periferia, però si sentono alcune “conflittualità”, dovute ad un ambiente sociale disagiato, per diversi di motivi. C’è però anche una particolare commistione di ceti sociali, che comunque è interessante: a fianco a noi, c’è una scuola materna frequentata sia dai bambini che abitano nelle ville del quartiere Piola e sia da quelli che abitano in queste case popolari; convergono e convivono così realtà diverse.

 

Questo tipo di contaminazione è qualcosa che caratterizza anche Danae?

Attilio: sono due discorsi un po’ differenti: Danae è un festival dallo sguardo aperto, pur avendo chiaro il tracciato del binario su cui scorre. È un festival che si interfaccia con il grande nome internazionale e con il giovane artista che fa i suoi primi passi. Tutto è seguito con cura e un preciso disegno in modo che lo spettatore possa fare un proprio “viaggio” all’interno del programma.

 

Parliamo di una parola “tormentone”: diffuso. I festival ora sembrano tutti diffusi. È una parola che sembra voler evocare l’abbondanza e l’onnipresenza. Voi lo siete da tanto tempo, era nato così Danae, con una vocazione alla diffusione?

Attilio: no, non è partito così, prima proponevamo spettacoli nella vecchia sede dell’Out Off in via Dupré, ed era un festival primaverile. Già al terzo anno è sorto il bisogno di “uscire” dal palcoscenico, dalla scatola teatrale: abbiamo usato quindi l’atrio, poi lo scantinato, e infine siamo usciti fuori, ci siamo “tuffati” nella città. Abbiamo usato spazi meravigliosi: mi viene in mente Area Bovisa, un ex deposito dove vendevano mobili che è stato “abitato” da un’intensa performance degli MK, le bellissime vetrine dei negozi di Corso Garibaldi, oppure il deposito dei treni delle Ferrovie Nord dove abbiamo allestito un lavoro di Monica Francia a cui gli spettatori accedevano, arrivando in treno. Irripetibile. Abbiamo fatto cose un po’ pazze, che forse non potevamo permetterci, che ci hanno richiesto un grande sforzo, soprattutto in un tempo in cui eravamo molto meno strutturati. L’edizione autunnale è arrivata quando piano piano i grandi eventi milanesi come il Salone del Mobile ad aprile rischiavano di schiacciarci. Di certo l’utilizzo di spazi extrateatrali era escluso in quel periodo perché il Salone aveva alzato i prezzi rendendoli inaccessibili. Nel 2015, dopo un periodo di doppio appuntamento primavera e autunno, abbiamo fatto la scelta radicale e spostato Danae a ottobre – novembre. Questo a discapito degli eventi all’aperto (che ad aprile sono stati una presenza importante), e che ora, pur non facendoli mancare, dipendono inevitabilmente dalle condizioni climatiche.

Come vi orientavate nella ricerca degli spazi in città?

Attilio: In alcuni casi abbiamo pensato a degli spazi che potessero ospitare più proposte, e che nello stesso tempo diventassero a loro volta “protagonisti” della proposta stessa, come nel caso di Assaggi da Vetrina dove, attraverso una percorso lungo le vetrine dei negozi di una via, si poteva assistere a performance di diversi artisti; oppure il Labirinto Tersicoreo al Palazzo Bagatti Valsecchi dove si era condotti lungo un percorso fatto di stanze e luoghi del palazzo, assistendo a diversi soli di danza o spettacoli di compagnie emergenti. Altre volte il luogo è divenuto lo spunto creativo intorno al quale costruire la performance come per il progetto The Ring, curato artisticamente da noi. In questo caso abbiamo trovato una palestra di pugilato con un ring vero e proprio e ci abbiamo costruito intorno un meccanismo di gioco/spettacolo che coinvolgeva quattro danzatrici, artiste affermate per la loro ricerca coreografica, alcune importanti giornaliste di danza, incatenate su un grande seggiolone e diversi sound designer, che ogni sera creavano l’ambiente sonoro. Io facevo il gong boy, Alessandra impersonava la round girl, ed estraeva delle palline, anche dal proprio décolleté, con sopra un numero che era abbinato ad un particolare combinazione di danza (duetto, solo, terzetto, quartetto) creando la sfida sul ring delle performer.

Infine lo scambio continuo con gli artisti ci ha permesso di scoprire nuovi posti. Penso ad Annamaria (Ajmone) che è un’artista che si è confrontata con noi su un suo specifico progetto e ci ha permesso di scoprire il bellissimo spazio in Via Durini della Fondazione Bonotto. Insomma questa rete di relazioni nutre il disegno artistico del festival e amplia la mappa dei luoghi che “attraversiamo”.

Qual è il pubblico di Danae? Com’è cambiato?

Attilio: All’inizio era un pubblico più vicino alle nostre frequentazioni. Parliamo di sessanta, settanta persone per spettacolo. Poi uscendo dallo spazio teatrale, rafforzandoci dal punto di vista comunicativo e andando costruendo un’identità riconoscibile e riconosciuta sempre di più dalla stampa, è cambiato tutto e il pubblico è via via cresciuto. Non abbiamo mai monitorato il pubblico ma è tendenzialmente giovane. Sicuramente è trasversale, non ha solo voglia di chiudersi in una sala teatrale, è assetato di cose nuove e rinnovati stimoli. Ogni artista porta con sé un bacino di spettatori che talvolta vengono a conoscere Danae in quel momento e il loro interesse si allarga al resto della programmazione. Noi siamo a contatto con il territorio, viviamo qui, non siamo i direttori del festival che vivono su un’astronave e che atterranno stilando il programma. Il nostro festival è strettamente connesso agli artisti che lavorano in questo territorio, non solo con le compagnie nazionali o internazionali. Non c’è differenza tra un artista che sta a Londra o un artista di Milano. C’è interesse per la materia artistica piuttosto che geografica. Ora c’è tutto un discorso molto interessante sul rapporto con il territorio da parte di diversi festival, come nel caso di Santarcangelo: si tratta davvero di sperimentare, fare ricerca anche in questo campo.

Danae non si preoccupa quindi di “ridisegnare una mappa” della città.

Attilio: io penso che una mappa poi si venga a creare ma non è tracciata a priori. Ti muovi con una cartina e poi ti segni dei luoghi. Non è che decidi di disegnare un pentagono, mentre procedi magari si crea “una strana medusa” che emerge e ti parla di una città e di una popolazione che abita qui.

Cosa hai scoperto su Milano in 19 anni di Danae Festival?

È una città difficile, in veloce trasformazione, che però da sempre accoglie le proposte anche ardite che noi facciamo. Gli artisti che vengono da fuori vedono un pubblico curioso e non solo una comunità di addetti ai lavori. Noi stessi ci stupiamo di questo! C’è anche però voglia di leggerezza, insomma si è sempre in bilico; va bene scendere verso zone misteriose della ricerca come è successo per esempio con la proposta di quest’anno di Yasmine Hugonnet, senza nessuna preoccupazione di presentare uno lavoro altamente ardito e sofisticato relativamente alla ricerca corporea. Però c’è anche il desiderio di fare delle proposte più facilmente intellegibili, che raccontino magari una storia, e che, a volte, possa dialogare anche con un pubblico di bambini, sempre restando nel solco della ricerca. Questa commistione di generi e di tensioni nella programmazione per me è la bellezza di Danae.

Dove guardi? In quale direzione guardi? Quale Moira scegli? (Cloto fila lo stame della vita, Lachesi lo avvolge sul fuso e stabilisce la lunghezza mentre Atropo recide il filo)

Attilio: Sono sempre incuriosito da Atropo, colei che taglia, che genera la fine, in quella zona “shock” sento sempre un po’ di elettricità. Ma in questo momento della vita ho voglia di guardare anche verso la nascita e non solo verso la morte. Insomma è uno sguardo che sta un po’ da una parte e un po’ dall’altra. Rispetto alla sua direzione penso all’immagine del cavallo che abbiamo usato per l’edizione di quest’anno, sento che ci rappresenta; l’ampiezza del suo sguardo sfiora i trecentossentagradi e gli permette di avere un orizzonte ampio davanti a sé.

Com’è andata l’edizione di quest’anno?

L’edizione di quest’anno è stata molto corposa, sono state tre settimane intense, ricche di proposte. Il Festival nell’insieme è andato bene. Merita una citazione la collaborazione molto proficua con il DID Studio diretto da Ariella Vidach, presso la Fabbrica del Vapore, con cui abbiamo realizzato un’interessante sezione dedicata alla nuova ricerca coreografica elvetica.

Qual è la tua zona preferita di Milano?

Attilio: Isola. È scontato? È un quartiere in trasformazione, ci sono ancora i piccoli negozi, l’elettricista, il panettiere, i locali di tendenza dialogano anche con i vecchi bar. Si fanno dei bellissimi incontri. Ci sono anche realtà culturali alternative estremamente vitali, come Zona K o lo spazio della O’. E poi c’è il mercato rionale!

Milano è una città che ancora preserva piccole realtà locali ma ha un appetito vorace per le grandi operazioni.

Attilio: In generale a Milano, a livello istituzionale, c’è molta attenzione per il megaevento, il super, il mega, le migliaia di spettatori, i grandi numeri. Capisco l’incanto per il fuoco d’artificio però bisogna anche prestare attenzione a ciò che sta sotto, a ciò che lo alimenta. Questo gran movimento di cui si parla, che fa girare l’economia, dove porta? A un circolo chiuso che ruota su se stesso; non è che queste grandi speculazioni ridistribuiscano la ricchezza in modo efficace. È vero che Milano sta vivendo un momento iperbolico. Ma alcune cose lasciano perplessi come gli sfregi architettonici di certe costruzioni in Garibaldi, oppure la schizofrenia di eventi come Expo, un innegabile successo che però io per esempio, andando l’ultimo giorno, ho faticato a sopportare: non riuscivo a capire perché migliaia di persone potessero restare in fila per ore per questa cosa, quale fosse il valore della loro esperienza.

Mentre parlo con Attilio mi ricordo che i grandi mutamenti del corpo, quelli profondi, permanenti e rivoluzionari, avvengono in luoghi invisibili, tra particelle minuscole, al livello del Dna. Per questo continuo a pensare che sia essenziale il lavoro che porta avanti Danae Festival. Perché invece che esasperare un meccanismo di consumo lascia germinare esperienze individuali, di stupore e piccola meraviglia, che permettono una reale relazione di curiosità e sostegno, perché di questo ha bisogno il tessuto di una città, di curiosità e sostegno. L’ultima cosa di cui mi parla Attilio è del mercato in Isola e del fatto che ci ha messo tempo a trovare la persona giusta da cui acquistare la frutta: ora, siccome li conosce, se qualcosa non va può tornare e farglielo presente. Per lui è importante. Anche per me è importante abitare in una città non tanto a misura d’uomo, ma a misura di relazione.

 

 

 

 

 

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