Il direttore inglese dirige per la prima volta alla Scala il capolavoro teatrale di Schubert, opera molto amata dal suo maestro Claudio Abbado.
Il fascino discreto del catalogo di Franz Schubert non conta solo meravigliosi cicli di Lieder, momenti musicali da camera e non, innumerevoli sonate, sinfonie compiute e incompiute. Esiste un altro Schubert, quello teatrale, assai meno conosciuto e che quest’anno compare per la prima volta nelle stagioni della Scala con Fierrabras, titolo che il compositore austriaco non vide mai rappresentare.
Commissionata nel 1823 dal Kärntnertortheater, Fierrabras fu rinviata senza possibilità di appello dall’impresario Domenico Barbaja, l’artefice della Rossini-mania viennese di quegli anni che aveva già rifiutato a Schubert Alfonso und Estrella. Così non se ne parlò più fino alla versione spuria di Felix Mottl per il centenario della nascita del compositore, nel 1897 a Karlsruhe, con Schubert scomparso da quasi settant’anni.
Per arrivare alla prima edizione completa bisogna aspettare un altro secolo, quando nel 1988 Claudio Abbado, entusiasta dell’opera, la presentò al Theater an der Wien. Un’esecuzione che rappresenta l’ultimo passaggio di un percorso di riscoperta curiosamente tutto italiano, iniziato con Fedele D’Amico, che fece da voce narrante per una riduzione presentata alla Sagra Musicale Umbra nel 1978, per arrivare a Maurizio Pollini, anch’egli sostenitore di Fierrabras, tanto da far incuriosire l’amico Claudio. Dell’eredità musicale di Abbado ha molto da dire anche Daniel Harding, che fu suo assistente ai Berliner Philharmoniker e che per primo ha l’opportunità di presentare alla Scala il capolavoro teatrale di Schubert.
Pochi altri lavori mi ricordano Abbado come Fierrabras, quella passione che mostrava ogni volta che si trattava di far conoscere pezzi dimenticati o sottovalutati, come avvenne anche con le Szenen aus Goethes Faust di Schumann. Si tratta di alcune delle esperienze musicali più importanti che abbiamo avuto.
Perché i lavori teatrali di Schubert sono stati ignorati così a lungo?
Nel nostro mondo musicale non mancano i luoghi comuni. Uno di questi è che Schubert non fosse un buon compositore d’opera; sono gli stessi che sostengono che Verdi non sapesse scrivere opere buffe. Per combinazione una delle ultime volte che sono stato ospite alla Scala ho diretto proprio Falstaff, che mi pare possa confutare in modo eccellente questa teoria.
Anche Fierrabras eliminerà ogni dubbio?
Non si tratta di un’opera perfetta, ma forse un’opera non deve essere perfetta. Noi, nelle nostre condizioni di mortali ignoranti, possiamo senz’altro criticare Fierrabras per alcuni aspetti. Ciò non toglie che sia un’opera straordinaria. Ecco la parola giusta: è questo che cerco in un’opera, non la perfezione.
Straordinaria anche per la sua natura sperimentale? Dato che contiene le forme dell’opera tradizionale insieme a parlati, melologhi e Lieder.
A dire il vero l’unico Lied per orchestra di Schubert è in Alfonso und Estrella, nella scena in cui Alfonso, il tenore, chiede a suo padre di cantargli la canzone che gli cantava da bambino: a quel punto l’opera si ferma e inizia un Lied per baritono con accompagnamento orchestrale originale di Schubert. Ricordo di averlo registrato con Christian Gerhaher, il quale mi aveva parlato con grande passione di tutta la musica operistica di Schubert. In Fierrabras non ci sono veri e propri Lieder per orchestra. Ciò non toglie che sia un lavoro musicalmente insolito e molto interessante.
Per quale motivo?
Perché ci sono continuamente momenti che rimandano a qualcos’altro, che ci fanno pensare ad altre opere che conosciamo, come la Zauberflöte o il Freischütz, ma che allo stesso tempo possono essere stati scritti soltanto da Schubert.
C’è un passaggio che le sta particolarmente a cuore?
Forse il finale del primo atto, che inizia con una serenata di Eginhard con una melodia di sublime semplicità, tipicamente schubertiana, che a un primo ascolto sembra persino naïf. Ma quando poi Emma, a cui la serenata è rivolta, risponde, Schubert con un semplice passaggio da minore a maggiore ottiene un effetto straordinario. Un procedimento che adotterà anche nel primo Lied della Winterreise.
Quanto alla presunta debolezza drammatica dell’opera?
Basta ascoltare il secondo atto per accorgersi che il livello di tensione non smette mai di crescere: è una successione ininterrotta di momenti in cui a ogni passo sembra di essere arrivati al massimo, al finale, e invece Schubert riesce sempre ad andare oltre.