Figlio di Maurizio, nipote del celebre architetto Gino e pronipote di Fausto Melotti. Con lui parliamo non solo di rapporti familiari ma anche di Novecento, di Scriabin e Stockhausen, protagonisti della sua recente incisione per la Deutsche, e delle sue aspirazioni di compositore
Un pianoforte Steinway, grandi fogli di musica su un enorme tecnigrafo, un tavolo ingombro di carte, dischi, appunti, una tastiera elettronica, un potente impianto audio: la stanza della musica è al centro di una casa d’impianto modernissimo, sobria ma imprevedibile, modulata dalla mano di un progettista che conosceva il respiro dei grandi e dei piccoli spazi, Gino Pollini, architetto, maestro del razionalismo italiano. Daniele, figlio di Maurizio, musicista per stirpe e cultura, la vive come fosse stata disegnata, anni fa, attorno a sé, alle sue passioni, ai suoi interessi. Segno che qualcosa di tangibile attraversa le generazioni e le permea.
Ma non è il solo filo che corre fino a lui. In una fotografia interna all’album che Maurizio Pollini ha da poco dedicato al secondo libro dei Préludes di Debussy, in cui Daniele si unisce in En blanc et noir per due pianoforti, padre e figlio sono ritratti sullo sfondo di alcune sculture filiformi, cesellate in geometrie che suggeriscono armonia e mistero. Sono di Fausto Melotti, fratello di nonna Pollini, compagno di studi e amico di Fontana, uno degli artisti più importanti dell’astrattismo italiano, che ha tradotto in forme plastiche la fantasia e il rigore del pensiero musicale, le sue forme, le sue logiche interne. (Una visita allo splendido allestimento di sue sculture, alle Gallerie d’Italia di Piazza della Scala fino al 14 agosto, può aprire gli occhi su un mondo che non ha eguali nell’arte del Novecento, e non solo del Novecento)
Daniele, partiamo da questa immagine simbolica. Maurizio Pollini è il Pianoforte Contemporaneo, per scelte e pensiero interpretativo. In casa, nelle generazioni precedenti la sua e la tua, si sono coltivate le istanze più moderne e astratte della cultura italiana. Senti anche tu segnali di appartenenza a quel “pensiero forte”?
Domanda cui è difficile rispondere perché implica una sorta di autoanalisi, che posso fare solamente in parte e le cui conclusioni non è forse compito mio trarre: si tratta di misurare fino a che punto alcuni aspetti dell’ambiente nel quale sono cresciuto abbiano influenzato le mie scelte. Posso dire che quel che ho sviluppato autonomamente rispetto a mio padre non l’ho percepito in contrapposizione con le premesse che ho trovato attorno a me. Quando poi si parla di Melotti, della sua pittura, della sua scultura, ma anche dei suoi scritti, ammetto che ha avuto un’importanza molto forte nella vita. Sì, questo pensiero mi appartiene anche nelle forme diverse che nel tempo si sono sviluppate, perché appunto Melotti appartiene a una generazione precedente anche quella di mio padre.
Diciamo un flusso di pensiero moderno.
Certo. E anche il programma che ho scelto per questo mio disco su Deutsche Grammophon è una dimostrazione evidente. Ho voluto affiancare composizioni molto conosciute del repertorio pianistico ad altre più rare e ricercate.
Un disco molto “polliniano”: gli Studi op. 10 di Chopin e il Klavierstück IX di Stockhausen, ma con un passaggio intermedio che vi distanzia.
Sì, Scriabin. Mio padre credo abbia suonato solo una volta la quinta Sonata, ma si parla di molti anni fa.
Nel tuo album la cerniera è forte. Parliamo degli ultimi pezzi di Scriabin, scritti quasi esattamente negli anni di En blanc et noir di Debussy, attorno al 1915. Ne senti più una vicinanza cronologica o una distanza espressiva?
Fra Debussy e Scriabin? Non posso negare alcuni punti di contatto. Sorprendente è come Scriabin, così differente da altri autori del suo tempo, Debussy, Stravinsky o Schönberg, partecipi a un tipo di ricerca che in quegli anni era nell’aria e arrivi, in forma molto personale, a una sperimentazione che li accomuna. I Preludi op. 74 sono pezzi sostanzialmente atonali, pochi anni dopo la sistematizzazione dell’atonalismo dei viennesi. Da un’altra parte c’è una ricerca sugli aspetti timbrici che in Scriabin diventano centrali del comporre, come nella musica francese: Debussy e Ravel. Una invenzione straordinaria sul suono su cui si concentreranno alcune correnti del secondo dopoguerra.
Che riscoprono il suono come valore in sé.
Anche questo. Mi affascina il primo Novecento perché anticipa una compresenza di passato e di futuro, e annuncia sviluppi non solo di quel secolo ma anche del secondo millennio.
Scriabin: una passione o un interesse accanto agli altri?
Non posso dire che sia una passione dominante, rispetto ad altri come Debussy e Ravel, Stravinsky e Schönberg. Ma in questo momento mi interessava radunare queste ultime opere per pianoforte perché ascoltarle tutte assieme è raro e perché hanno un legame con il suo progetto irrealizzato degli ultimi anni: possono far capire come la grande utopia teatrale avrebbe potuto esprimersi.
Utopia che invece Stockhausen è riuscito a realizzare.
Sì, nel ciclo Licht. Anche Scriabin voleva combinare la musica con i colori, la danza, le luci: una simile pulsione verso una sintesi delle arti“ .
Qualcuno è testimone di certe gare con papà a chi solfeggiava più battute del Sacre di Stravinsky
(Ride) Sì, credo che sia successo. Ho ascoltato il Sacre quando avevo dodici anni e ho nutrito una passione quasi ossessiva. L’ho ascoltato e studiato tanto.
Il compositore Daniele Pollini è nato prima o dopo il pianista?
Non c’è mai stato un momento nella mia vita in cui ho pensato di fare solamente il pianista. La passione per la musica è iniziata con una connessione molto forte con la composizione. E non c’è stata mai una separazione fra musica del passato e repertori più recenti. Da bambino, quando ho sentito questa attrazione per la musica, ho cominciato anche a scrivere. Poi, siccome i miei studi musicali si sono sviluppati con organicità relativamente tardi (verso i dodici-tredici anni ho realizzato che la musica era così importante per me), mi sono concentrato sulla formazione come pianista. Poi i rapporti si sono ribaltati. Ho rallentato l’attività concertistica e accelerato l’acquisizione di competenze anche tecniche nel comporre.
Le due attività comunque si guardano.
E si integrano, perché è chiaro che il comporre ti dà potenziali prospettive sull’interpretazione molto importanti, a volte decisive. Comunque portare avanti le due visioni è effettivamente complicato: richiedono molto tempo e dedizione.
Verso la musica cosiddetta non colta che atteggiamento hai?
“Sempre di curiosità. Di relativa indifferenza nei confronti di molto di ciò che si ascolta. Farei mia una considerazione di Lachenmann: la tradizione occidentale più alta si è conquistata una autonomia rispetto alle funzioni cui un tempo la musica era legata, come la magia, la danza, la religione. Rompere il legame con l’extramusicale è l‘idea in cui mi riconosco. Spesso la musica leggera non nasce per stimolare questo aspetto.
Ha una funzione gregaria.
La musica diventa arte quando rivendica un ascolto a sé, che non ci permette quasi di fare altro. Se la musica riesce ad aprire la nostra coscienza, allora siamo nella giusta direzione. Se è accompagnamento secondario, siamo anche in contraddizione con quel che la musica della grande tradizione ci porge.
Il pianista Daniele Pollini in quali direzioni si sta muovendo?
Proseguire sulla strada della registrazione in studio, che meglio dell’attività concertistica si integra con l’impegno a comporre e sollecita approfondimenti. Autori? Schumann, Brahms, Schönberg e forse due pezzi di Evangelisti, autore che mi affascina.
E il compositore?
“Il primo obiettivo è concludere un progetto per grande orchestra, molto grande, quasi fuori legge. Con elettronica, ma come presenza non dominante, non comunque live electronics. Sono a buon punto: di cinque sezioni ne ho completate quattro.
Ha già un titolo?
Provvisorio che non rivelo. È una sintesi di quello cui ho lavorato negli anni. Scelta forse un po’ bizzarra: cominciare con una grande composizione invece che con pezzi più brevi.
Che al momento non hai fatto eseguire.
In effetti come compositore sono ancora una realtà misteriosa.
Immagine di copertina: Daniele Pollini © Cosimo Filippini