L’esigenza di essere amati, l’esperienza di essere abbandonati. Nel nuovo romanzo di Daria Bignardi, cinque personaggi si incontrano, combattono, riflettono, si aiutano, si valutano sul crinale che separa il dolore già sopportato da un possibile deragliamento.
Una donna, una ragazza, un fantasma, un seduttore seriale, una psicologa.
Agli estremi stanno la donna (il soggetto, nominativo, voce narrante, che insieme è anche oggetto del tema sotteso a tutto il romanzo), e all’opposto la psicologa (il vocativo, quella a cui tutti si rivolgono).
In mezzo, obliqui, sono la ragazza (con il suo nodo di appartenenza familiare), il fantasma – che poi è una fantasma – inchiodata alla rabbia di un amore ingrato vissuto cent’anni prima, e infine il seduttore seriale, veicolo inquieto di inappagamento tra un rapporto finito e una moltitudine di prede da consumare e abbandonare.
Tutti insieme, dai movimenti che in varia forma scaturiscono e si riverberano sulle tracce delle loro esistenze, i cinque personaggi fanno una declinazione intera: sono i casi dell’abbandono, la sintassi emotiva che definisce il perimetro di un dolore che ognuno di noi, almeno una volta nella vita, prova.
Storia di cicatrici e di solitudini, di attraversamenti, di persistenza e di trasformazione, Oggi faccio azzurro (Mondadori) è il settimo libro di Daria Bignardi.
Uscito a distanza di dodici anni dal memoir d’esordio Non vi lascerò orfani, e cinque anni dopo Santa degli impossibili, il libro va a occupare una tessera coerente con il mosaico di temi che l’autrice sta componendo nella sua carriera letteraria: ancora una volta la materia di fondo è perciò quella del rapporto con la perdita, e, contestualmente, del confronto con il dolore degli altri.
Sola è Galla, la protagonista, abbandonata dopo vent’anni dal compagno Doug. Sola, dal suo vicino aldilà, è Gabriele Münter, lasciata dall’uomo che ha contribuito a rendere famoso (e dalla cui fama è stata completamente oscurata). Sola è Anna Del Fante, la psicologa, rimasta vedova per un incidente stradale.
Il capriccio, l’ambizione, la fatalità: gli antagonisti che irrompono nella vita delle donne sono una sorta di catalogo della dismisura, forze contro le quali va a schiantarsi ogni presumibile speranza di rassicurazione.
Non è un caso se nella vita (reale) di Gabriele Münter l’abbandono da parte di Vasilij Kandinskij si tradusse in una lunghissima depressione; né che, fin dalle prime battute del romanzo, la voce interiore di Galla abiti la medesima geografia fatta di sensi di colpa, prostrazione e impotenza. E imponderabile, se non per rari affioramenti, è l’abisso nel quale la vita di Anna Del Fante è passata dopo che è stata strappata da un presumibile equilibrio di donna e di madre.
D’altro canto, benché danneggiati e introflessi, sono, quelli di Oggi faccio azzurro, tutti personaggi che non indulgono al lamento o all’annullamento di sé: li incontriamo nei rari istanti in cui si spiano tra la fine e l’inizio delle rispettive sedute dalla terapeuta. Si guardano, fanno proiezioni, incrociano le proprie fantasie sulla psicologa – e sarà, il luogo della cura, quello nel quale la relazione umana (a dispetto di ogni più profondo dolore) proverà la propria resistenza.
Esattamente come i vasi riparati con lacca e oro in Giappone esibiscono la riparazione kintsugi come prova della loro storia, e dunque del loro valore, così né Galla, né la giovane Bianca, né Gabriele hanno alcuna intenzione di nascondere le proprie lesioni:
Si vuol quasi più bene alle cicatrici, alle ombre, che non ai regali di natura per cui non si hanno meriti.
Ad affermarlo è Galla, detentrice della ferita più viva e pulsante, che proprio per questo entra in risonanza con Gabriele, la pittrice ombra, talentuosa e caparbia, compagna di vita di Kandinskij, musa pensante, complice del successo, artefice della trasformazione dell’oscuro studente di legge in genio fondatore dell’astrattismo.
È quando Galla, in solitaria, visita a Monaco il museo nel quale sono esposte le opere di Gabriele che la Voce di lei fa irruzione nella sua testa: di quello che oggi Galla vive, Gabriele ha già fatto la prova, e rivendica, ruvida, la propria funzione di sempre. Se di aiuto deve essere ancora, e di sostegno, vuole che sia perché gli occhi troppo accondiscendenti di Galla si aprano, perché la lacerazione passi dal giudizio benché bruciante, affinché la storia del dolore possa anche essere quella del suo attraversamento, di un possibile dopo.
In fondo (e questa è una questione che la letteratura di questo tempo sta finalmente contemplando, a molti livelli) di quante donne dimenticate, e di quanto loro dolore ignorato, sono piene le pareti dei luoghi che non hanno una voce per raccontare?
Proprio l’ascolto è un altro tema forte del romanzo: la capacità di ascoltare sé come possibile fonte di cambiamento.
Che questo avvenga in un museo vuoto, fissando la propria attenzione oltre la tela di un quadro, o in un non luogo come è un carcere, il potenziale ribaltamento delle proprie valutazioni è parimenti una potentissima lente sulla realtà:
In carcere ti accorgi che è un caso non essere nati nel posto sbagliato, e ti rendi conto della fortuna enorme che hai. Forse è per questo che quelli che vengono da fuori sono tutti gentili, concentrati, strani.
E se è vero che, nella vita dei personaggi femminili primari e secondari di questo romanzo, l’umanità maschile è fortemente impegnata a sparire, ad allontanarsi, a morire, a far soffrire, a chiudersi, a coltivare sé e solo sé, è anche vero che la misura esercitata dall’autrice non polarizza – e in questo non banalizza – il pensiero delle sue protagoniste.
Nessun capro espiatorio, nessun livore, nessun dileggio. Anzi. Proprio lì dove meglio si attaglierebbe lo stigma, nel personaggio potenzialmente più friabile, c’è la chiave per aprire una nuova porta da cui affacciarsi. Un azzurro diverso, insomma, è ancora possibile.