Non manca nulla (o quasi) alla messa in scena dell’”Oro del Reno” del regista scozzese David McVicar vista alla Scala. Non manca l’ambiguità di Wotan, né il tragico destino di Alberich. Non l’erotismo delle figlie del fiume o il grottesco di Fafner e Fasolt. Impeccabile anche la direzione di Simone Young, nella quale nessun leitmotiv va perso. E allora? Forse ad essere carente è quel senso dell’arcano che avrebbe reso la rappresentazione più profonda
Strano il Wagner di questi giorni alla Scala. Parliamo dell’Oro del Reno (Das Rheingold) che sta in scena fino a domenica 10 novembre per cinque recite (su ScalaTv quella del 3 novembre). Ma strano non vuol dire niente. È un aggettivo vago, sulla difensiva, come l’altro, più stupido perciò usatissimo, che è “particolare”: messaggio che sta tra il “non ho idee” e il “mi fa schifo ma non so come dirlo”. Insomma L’oro del Reno è “un po’ particolare”.
Lo spettacolo di David McVicar, regista scozzese di pragmatica scuola anglosassone, non ha lacune, non gli manca nulla o quasi (a seconda dei punti di vista). Nella sua grande onestà intellettuale, McVicar s’impegna sempre a raccontare, a non mancare situazioni e personaggi. É molto concreto nel descrivere la doppia disgrazia di Alberich, padre-padrone dei nani Nibelunghi: desiderare l’amore, rinunciarvi per rincorrere il potere e perdere anche questo per stupidità. Altrettanto semplice e diretto nel suggerire l’ambiguità di Wotan, signore degli dei che trasgredisce le sue stesse norme, che abusa della legge di cui dovrebbe essere custode, sospeso tra cupidigia e abilità, potere e impotenza. Sono loro i personaggi-cardine del Prologo in quattro quadri alla immensa Tetralogia (15 ore di musica), che con Walkiria, Sigfrido e Crepuscolo degli dei compone il più grande viaggio nella Vita e nell’essere umano che la cultura occidentale abbia affidato al linguaggio “totale” del teatro in musica.
Non manca, in McVicar, la vena erotica delle tre Figlie del Reno che giocano con l’acqua del fiume per la cultura germanica sacro come il Gange per gli indiani; le adagia tra due grandi mani ma, per essere sicuro, infila nella scena d’acqua anche un mimo seminudo. Non si fa mancare nemmeno il grottesco di Fafner e Fasolt sui soliti trampoli, aggiungendo mani enormi, perché sono loro, i giganti, ad aver messo pietra su pietra il grande Walhall che dovrebbe tenere al sicuro gli Dei da un declino già scritto, che li raggiungerà inesorabilmente fra circa dodici ore di musica (tolte le due e mezza dell’Oro).
Non se la sente, McVicar, di evitare un tocco di nevrosi nel muovere Loge, il semidio del fuoco e dell’inganno, che toglie (per il momento) Wotan dai guai, aiutandolo a violare una promessa, a ingannare gli altri (lui un dio), a sottrarre per un attimo l’anello d’oro ad Alberich (rubare a un ladro si può, anche se si è divini), a garantire agli Dei una reggia che s’illudono sicura. Del resto è Wagner stesso a ritrarre la frenesia di Loge con il guizzo fiammeggiante di motivi cromatici.
Non ci sono dettagli significativi che McVicar lasci indietro. Il problema è che nell’annunciare con belle parole la chiave della sua lettura, ovvero mostrare quanto il Mito contenga la Verità dell’essere umano, del nostro essere umani, McVicar faceva intuire rivelazioni che nello spettacolo non ci sono. Ha promesso molto e mantenuto poco. Molto vaga è la trasformazione dell’oro da innocente materia della Natura a pericolosa arma della Cultura, da pietra a moneta da scambio, da originaria bellezza a radice di ogni male.
Nel gioco delle simbologie, la più evidente e ripetuta è quella della mano. Va bene: è la mano di Alberich che ruba l’oro alle Figlie del Reno, è la “mano callosa” dei Giganti a costruire il Walhall, sono le mani dei poveri nani nibelunghi, operai-schiavi nelle viscere della terra, a scavare e forgiare le ricchezze degli altri. (Parentesi: Wagner era stato vicino a Bakunin nei moti rivoluzionari del 1848, L’oro del Reno è del 1853-54, Il Capitale di Marx del 1868). Ma l’astrazione è tutta qui.
Hanno il loro fascino le scene progettate da McVicar e Hannah Postlethwaite: natura informe su fondali magmatici e corruschi, un enorme teschio d’oro (la maschera che trasforma Alberich, gli dà potere e poi lo abbatte), una doppia scalinata mobile che segna la linea dal basso (sotterraneo) del Nibelheim all’alto del Walhall. Fanno il loro effetto anche i costumi di Emma Kingsbury, paradossali soprattutto per Alberich, Loge, Donner, Froh. Ma, insomma, non viviamo quel che Quirino Principe definiva una “esperienza liturgica”.
Ha punte di forza nell’Alberich di Ólafur Sigurdarson e nel Wotan di Michael Volle, una compagnia di canto per lo più solida: Okka von der Damerau (Fricka), Olga Bezsmertna (Freia), Christa Mayer (Erda), Norbert Ernst (Loge), Wolfgang Ablinger-Sperrhacke (Mime), Jongming Park (Fasolt), Ain Anger (Fafner), Andrea Carroll, Svetlina Stoyanova, Virginie Verrez (Ondine), Andrè Schuen (Donner), Siyabonga Maqungo (Froh).
Nulla da eccepire nemmeno sulla direzione di Simone Young, musicista completa, concertatrice eccellente, tecnica sicura. Con lei l’Orchestra della Scala suona al meglio, anche se, bisognerà ammetterlo, diverse sezioni, ottoni per primi, godono del lavoro fatto da Kirill Petrenko nel Cavaliere della rosa di Strauss. La linea musicale è in direzione della chiarezza, dell’evidenza, dell’articolazione netta. Nessun leitmotiv va perso, nessun messaggio tematico rimane in ombra. Buca e palcoscenico si tengono stretti, il dialogo è ritmicamente preciso. Una sola cosa manca: il colore del mistero.
Qualche buh si è infilato negli applausi della prima, poca cosa ma avvertibile. Ingeneroso per Simone Young, comprensibile per McVicar, come moto di delusione per uno spettacolo che ci si attendeva più profondo. E giustificato è qualche pensiero sul futuro di questo Ring appena avviato.
Foto Brescia e Amisano @ Teatro alla Scala