Mistico e selvaggio. Simbolico e quantico. Matteo Marino indaga l’universo creativo David Lynch in un saggio edito da Becco Giallo.
L’arte deriva dall’interazione della mente con il cuore. È una definizione del guru di David Lynch, Maharishi Mahesh Yogi, fondatore della meditazione trascendentale ed è su questa traccia che I segreti di David Lynch di Matteo Marino, Edizioni Becco Giallo, ha intenzione di proporre suggestioni e chiavi di lettura per provare a decifrare i messaggi più oscuri delle opere del regista, accompagnando il testo con le illustrazioni di Elisa 2B tratte da scene madri dei suoi film.
Marino scrive un saggio che coniuga analisi critica precisa con un linguaggio assolutamente comunicativo, proponendo una chiave di lettura in grado di tenere insieme gli apparentemente opposti regni della razionalità e dell’emozione: il cinema di Lynch, spiega Marino, è un archivio di capolavori che traggono la propria forza dalla capacità di elidere i confini fra la profondità dell’impero della mente e l’imprevedibilità di un cuore selvaggio.
Regista, pittore, musicista, attore, costruttore di mobili, sognatore di mondi, bevitore di caffè e ambasciatore della meditazione trascendentale, David Lynch è tra i maestri più discussi, amati e odiati, idolatrati e disprezzati.
Il suo cinema nasce da un melting-pot di esperienze artistiche e culturali di cui Marino ricostruisce la genesi e le influenze nello stile cinematografico, caratterizzato da una cifra ormai diventata iconica e facilmente riconoscibile da chiunque. Vi troviamo dentro cultura tradizionale e pop, fiabe per bambini come Il Mago di Oz o capolavori della letteratura come Il maestro e Margherita di Bulgakov; e ancora ci sono echi da Hitchock e da Disney; un mélange di violenza trucida e un misticismo attinto soprattutto dalle religioni vediche e dal buddhismo tibetano, e non mancano nemmeno influenze della fisica quantistica, che tanto impatto ha avuto negli artisti e negli scrittori del secondo Novecento.
L’andamento della sua carriera, non a caso, è definito da David Foster Wallace (in un famoso articolo del 1996, David Lynch non perde la testa) come quello di un elettrocardiogramma per nulla piatto: a partire da Eraserhead, ai tempi uno sconosciuto-sconvolgente cult di nicchia, il film preferito di Stanley Kubrick, il tracciato schizza improvvisamente a The Elephant Man, inquietante film storico con Antony Hopkins e John Hurt, otto candidature agli Oscar, che però non vince neanche una statuetta perché Lynch alla fine resta sempre un outsider.
Il tracciato della sua carriera precipita di nuovo nel 1984 con il clamoroso flop di Dune, colossal fantascientifico disconosciuto da Lynch stesso, per poi volare al vertice di Blue Velvet del 1987, con l’enigmatica, irresistibile Isabella Rossellini, ai tempi sua moglie. Girato con un budget ridicolo per un compenso modestissimo pur di avere il controllo totale sul montaggio finale, il regista ne fa un capolavoro di voyerismo.
Improvvisa, nel 1990, la svolta con la serie Twin Peaks che costituisce una rivoluzione nel mondo della televisione. In tutto il mondo, anche qui in Italia, non si parlava d’altro: tutti in attesa della puntata successiva, tutti sconvolti dallo stile ipnotico e ambiguo di Lynch. Laura Palmer, l’agente speciale Dale Cooper, il nano, il sipario rosso, il cavallo bianco che irrompe nel salotto ci ossessionano. Realtà e delirio scivolano l’una nell’altro, verità e illusione si confondono, lo sviluppo temporale si aggroviglia e ci risucchia, le interpretazioni si moltiplicano esponenzialmente.
I film di Lynch, come dichiara l’autore stesso e si capisce leggendo il saggio di Marino, sono un’esperienza conoscitiva e straniante, che potrebbe quasi paragonarsi al perdersi nel bosco descritto da Heidegger:
Holz è un un’antica parola per dire bosco. Nel bosco ci sono sentieri che, sovente ricoperti di erbe, si interrompono improvvisamente nel fitto. Si chiamano Holzwege. Ognuno di essi procede per suo conto, ma nel medesimo bosco. L’uno sembra sovente l’altro: ma sembra soltanto. Legnaioli e guardaboschi li conoscono bene. Essi sanno che cosa significhi trovarsi su un sentiero che, interrompendosi, svia.
Solo se non ci affanniamo verso l’uscita capiamo che un sentiero interrotto non è che non porti da nessuna parte, ma «ha una meta, e precisamente il cuore del bosco, dove si trova la legna-bosco (Holtz)».
Un bosco in cui è facile perdersi, e per questo si salutano sempre con entusiasmo libri come quello di Marino che ci forniscono le coordinate per orientarci e tentare di fare ordine fra le tecniche, le poetiche e le ascendenze culturali di questo mondo cinematografico. Un mondo quasi impossibile da esaurire e scavare in tutta la sua profondità. Parlando dell’idea che non riusciva a trovare per la conclusione di Mulholland Drive, Lynch disse che «Le idee sono simili a pesci. Se vuoi prendere un pesce piccolo, puoi restare nell’acqua bassa. Se invece vuoi prenderlo grosso, devi scendere in acque profonde…Tutto, ogni singola cosa esistente proviene dal livello profondo. La fisica moderna lo chiama “campo unificato” […] Il programma di meditazione trascendentale che pratico da trentatré anni è stato il modo di immergermi in acque più profonde a caccia del pesce grosso».
In queste acque profonde navighiamo anche noi spettatori, continuamente disorientati e affascinati dall’enigmaticità delle immagini che vi troviamo