Lo scorso 14 novembre Fondazione ICA Milano ha presentato “Shame is a Revolutionary Feeling”, giornata dedicata alle pratiche performative a cura di Chiara Nuzzi e Gabriella Rebello Kolandra, che prende il titolo dall’omonimo volume del filosofo Frédéric Gròs che interpreta il sentimento della vergogna come una possibile via di uscita dalla paralisi sociale e un’opportunità di trasformazione collettiva. Cinque giovani artiste e artisti provenienti dall’Accademia di Belle Arti di Brera, Raffaele Greco, Federica Mariani, Aronne Pleuteri, Martina Rota e Sabrina Zanolini, interagendo con l’architettura industriale della Fondazione hanno realizzato azioni potenti, ironiche e intense con grande consapevolezza e proprietà di linguaggio.
“All’uso del corpo come linguaggio sono riscontrabili caratteri comuni: perdita di identità, rifiuto del primato della realtà sulla sfera emozionale, ribellione dalla dipendenza, tenerezza come meta mancata quindi frustrante, assenza di una forma adulta d’amore. Alla base della Body Art c’è la volontà di essere amati per quello che si è e quello che si vorrebbe essere, amore primario. L’aggressività in questa arte è il risultato di questo amore non corrisposto. Per cui questo amore è mutato verso gli altri sé sdoppiati, camuffati, idealizzati, il romanzo di sé. L’avidità d’amore si fa narcisismo”.
Nell’incipit del più noto testo sulla performance mai pubblicato in Italia, e forse non solo, Body art e storie simili. Il corpo come linguaggio di Lea Vergine, la spiegazione un po’ psicoanalitica dei motivi profondi che spingerebbero un artista a usare il proprio corpo come medium per il proprio messaggio – questa visione per cui saremmo, noi performers, un branco di disadattati in disperata ricerca d’amore – mi ha sempre lasciato perplesso. Come si permette, signora? Pensa forse che non avremmo di meglio da fare che lasciarci andare a facezie sentimentali, a disperazioni disarticolate, a serissime buffonate, autolesionismi, esibizionismi, delirium tremens estetizzati, vagabondaggi, pericoli assurdi, freddo, fame, silenzio, baccano, festa, sesso, morte? Così, tanto per fare, per banalotto bisogno d’amore, per Dio? No, cara lei, siamo persone serie, noi! E tutti lì, seri anche loro, attorno a noi a guardarci senza batter ciglio, mentre ci contorciamo, ci spogliamo, ci soffochiamo, saltiamo, urliamo. Tutti lì, attenti e rapiti che neanche davanti a Glenn Gould che suona le Variazioni Goldbergh di Bach! E che applausi!
Ma soprattutto: noi comunichiamo con il più atavico degli strumenti, prima del segno, prima del disegno, prima della voce, prima del canto. Il corpo. E con quel corpo avevamo, abbiamo, avremo cose molto importanti da dire, da mostrare, da dimostrare. Il nostro stare al mondo. Il dolore. L’inadeguatezza. La gioia. Il divino. La rabbia. Quelle cose che valgono per tutti, che conosciamo tutti, dette dal centro senza stare al centro. Perché se c’è una cosa che la performance ha, e tutto il resto no, è la capacità, il privilegio di essere universale mettendo fisicamente al centro non se stessi, ma il proprio corpo come uno dei 7 o 8 miliardi di corpi possibili che siamo al mondo. Il mio corpo è simbolo, è concentrato di verità, è il corpo di tutti e di ognuno. Come lo sono la mia e la tua rabbia, il mio e il tuo dolore, la mia e la tua gioia. Il sé che si specchia negli altri, come diceva lei, signora. Allora forse aveva ragione, e se veramente, come diceva il vecchio McLuhan, il medium è il messaggio, allora forse qualcosa di vero c’è, nel suo body shaming della Body Art, nel suo spogliare in una frase il corpo già nudo di chi, spogliandosi, si veste dei miliardi di corpi altrui, del loro schifo, della loro poesia! Il mio medium È il mio messaggio, il mio corpo È la mia verità.
Ed è esaltante, signora mia, esser li come vermi sacri, eretti di fronte al mondo, spogliati di sé e vestiti di tutto, di politica, di amore, di pianto e sturm und drang, di sarcasmo e di sberleffo! Lo è stato per Gina Pane, Urs Lüthi, Katharina Sieverding, Rebecca Horn, Trisha Brown, Günter Brus, che scrissero per lei. Per Marina e Ulay, per Vito Acconci. E lo è ancora, di nuovo – dopo lungo silenzio, paura di ammalarsi e di mostrarsi – per le nuove generazioni, per quei e quelle ventenni o poco più che in questo mondo inchiodato in un eterno presente non hanno remore o fastidio, nel ballar nude o prenderci in giro, nello sgommare in faccia al destino o nel cacciarci tutti fuori!
È successo pochi giorni fa alla Fondazione ICA di Milano con Shame is revolutionary, serata performativa a cura di Chiara Nuzzi e Gabriella Rebello Kolandra che vedeva, con le parole del filosofo Frédéric Gròs, “il sentimento della vergogna come una possibile via d’uscita dalla paralisi sociale e un’opportunità di trasformazione collettiva dal potenziale rivoluzionario”, che può diventare rabbia, e quindi potenza, energia trasformatrice. Di nuovo, chi fa performance viene diagnosticato prima che compreso, prima di tutto e sopra a tutto, nel suo essere altro da sé per il sé di tutti. Ma così è, a quanto pare.
Lo scorso giovedì 14 novembre cinque giovani artiste e artisti, usciti o uscenti dall’Accademia di Brera, hanno vissuto e fatto vivere azioni potenti, ironiche e intense con grande consapevolezza e proprietà di linguaggio. Sabrina Zanolini ha trasformato un’ingessatura nel pretesto per rompere l’incomunicabilità semplicemente affidandosì all’altro da sé, che è sempre se stessa, in una circolarità tra sé e la sua sosia degna del William Wilson di E.A. Poe, portatrice qui di empatia e non di rovina; Aronne Pleuteri, per tramite del suo corpulento alter ego che è lo zio Pleto, sgomma e frena con un vecchio Ciao Piaggio ai segnali autoimposti da un proiettore personale di segnali stradali, in abilissimo equilibrismo tra l’incidente filosofico di Paul Virilio e la tamarrata da Brianza velenosa; il balletto pesante e sgraziato dei corpi femminili confusi tra il pubblico, istruiti da Federica Mariani con Emma Dotti, si rivela rituale catartico che stravolge in leggerezza i gesti che i medici di un tempo consigliavano per abortire, trasformando i suoni dei salti e dei pugni all’addome in un temporale estivo, che passa con l’allontanarsi degli ultimi tuoni; Raffaele Greco con il collettivo Compagnia Gerunda, serissimo e scuro in volto, ci caccia tutti in strada sbattendoci il pesante cancello di ferro in faccia, lasciandoci in strada ad ascoltare la struggente melodia di “El me gatt” di Ivan Della Mea spernacchiato dalla Banda degli Ottoni a Scoppio, investendoci con una potentissima ondata di sentimenti indecifrabili ma chiarissimi, che l’è la giustissia che me fa tort, Ninetta è viva, ma el gatt l’è mort; e Martina Rota, finale intimo, metà del corpo nudo, l’intero simulato nel movimento, con una lunga sequenza di gesti abili e precisi, vicini allo stile di Virgilio Sieni, ci regala l’intensa narrazione del piacere femminile, lontano da ogni sentore di volgarità o pornografia ma usati come strumento di emancipazione personale e sociale, come veicolo di poesia.
Cinque giovani artiste e artisti, piene e pieni di determinazione, letture colte e concentrazione monacale, che senza vergogna hanno riempito la serata di azioni dense e pregne, alzando almeno un po’ le mie aspettative per il futuro. Dell’Arte, della Performance e, chissà, dell’umano andare.
Shame is a Revolutionary Feeling, ICA Milano, 14.11.2024
In copertina: Raffaele Greco, Zona render ad alto rischio. Foto Valerio Di Martino – Compagnia Gerunda