Nel parco di Peter Stein, un sogno berlinese pre-perestrojka può degenerare in un’allucinazione, per chiudersi a una festa senza invitati con un ospite logorroico. Ecco…
Nel parco di Peter Stein, un sogno berlinese pre-perestrojka può degenerare in un’allucinazione, per chiudersi a una festa senza invitati con un ospite logorroico. Ecco il contrappasso borghese di mezz’estate: il Shakespeare più impalpabile con fate e spiritelli calati negli scomodi anni ottanta, nel residuo mental-punk della rivisitazione di Botho Strauss. È questo Der Park, già diretto da Stein nel 1984 e voluto dal Teatro di Roma per la scorsa stagione, finalmente al Teatro Strehler fino al 6 dicembre con la sua durata ronconiana di quattro ore e mezza – non che Stein sia un dilettante, per chi ricorda il giro d’orologio dei Demoni all’Hangar Bicocca.
Nessuno addomestica la natura come Shakespeare nel Sogno: il bosco è un personaggio dialogante pieno di impulsi e dinamismi, evocativo perché antropomorfico. Per Stein invece l’addomesticamento è in realtà una violenta prigionia, il bosco è in città, aggredito da immondizia, architetture alla moda e design zebrato. Anche gli incantesimi hanno perso la loro vaporosità: le formule magiche sono tradotte in riti sporcaccioni, Oberon – Paolo Graziosi – e Titania – Maddalena Crippa – pensano solo al sesso e si camuffano da esibizionisti à la Tinto Brass, con cappotti lunghi che scoperchiano luccicanti genitali di cristallo.
Lo sviluppo dello spettacolo è molto poco comprensibile: si tira il fiato soltanto nelle scene somiglianti alla fonte originale, con le due coppie di amanti – non più così giovani -, la zoofilia di Titania – che al solito asino preferisce un Minotauro -, l’eccentrica compagnia di artisti di strada – qui dei punk da zoo di Berlino. Per il resto il parallelo scespiriano è solo suggerito, quando non del tutto irriconoscibile. Ad esempio Puck, il dispettoso intermediario tra realtà e fantasia nel Sogno, diventa uno scultore annunciato da temi wagneriani – il ritmo di fucine e incudini dei Nibelunghi -, consegna ai personaggi statuine afrodisiache sempre più piccole, e come in Blow-up muore su un prato di morte violenta.
Resta però dubbia quella dirompente attualità del testo dichiarata da Stein con sconfinata ammirazione. Der Park è al contrario uno spettacolo polveroso, che in questo ha la sua forza: è interessante come bibelot di un altro evo, e procede con la lenta e meccanica grandiosità di un pioniere del Regietheater che ha sempre qualcosa da dire – o ne è convinto.
Oltre alla criptica dissolvenza del Sogno fatta da Strauss, Stein muove le parti mostrando una nevrotica incapacità di comunicazione: tra i personaggi, ma anche tra palcoscenico e pubblico. L’intreccio si disperde nel rapporto tra gli attori e la scena, e si percepisce come un centro gravitazionale che sospende il senso senza risolvere niente di ciò che viene impostato: gratuito ma notevole.
Per citare Auden, Shakespeare sa bene che «causa degli eventi tragici è il fatto di prendere troppo sul serio quelli frivoli». Se il Sogno originale riesce a ricomporsi all’alba è solo per la leggerezza acrobatica del bardo. In questa versione l’acrobata è caduto letteralmente nella sabbia prima che si levasse il sipario: non ci può essere levità, nessuno scampo, il sogno andrà avanti per sempre, Titania finirà sola, Oberon demente.