A cinque anni dallo splendido “Zero Dark Thirty”, la sua seconda nomination all’Oscar dopo quello vinto per “The Hurt Locker”, la regista Californiana rievoca la rivolta della città black allora capitale dell’auto che provocò 43 morti, oltre mille feriti e 2000 arresti. In quei giorni polizia del Michigan e Guardia Nazionale furono al centro di spaventosi episodi di violenza tra cui spicca l’irruzione nel Motel Algiers dove tre ragazzi neri furono uccisi a freddo. Bigelow rievoca quei giorni e quelle notti con stile asciutto, nervoso, sempre a ridosso dei fatti, minuto per minuto. E con un cast strepitoso
Nel 1967 Detroit era una delle locomotive che trainavano il sogno americano, cuore pulsante di quell’industria dell’auto che impiegava masse di negri (ebbene sì, così li chiamavano allora) ma continuava a tenerle ai margini della vita politica e civile. Detroit era una delle città più ricche d’America, ma gli operai che ogni giorno contribuivano a costruire quella ricchezza potevano divertirsi nel tempo libero soltanto se erano bianchi. Se avevano la pelle nera non avevano nemmeno il diritto di farsi un bicchierino ascoltando un po’ di musica (erano gli anni d’oro della Motown, quelli in cui la musica black si stava imponendo come un fenomeno di massa di successo planetario), senza rischiare di essere umiliati, malmenati, arrestati. Una situazione di quotidiana oppressione, di rabbia diffusa e frustrazione. Una polveriera, insomma, che aspettava solo il momento buono per esplodere.
E infatti esplose, il 23 luglio 1967, dopo l’irruzione della polizia in un locale notturno frequentato da afroamericani, il Blind Pig, dove si vendeva alcol senza licenza. Per le autorità, un crimine da punire con la massima severità. Per la comunità nera, un’ingiustizia palese, flagrante, ogni giorno più intollerabile. La rivolta scoppiò, per 5 giorni Detroit fu messa a ferro e fuoco, con un bilancio finale di 43 morti, 1189 feriti, oltre 7000 arresti e 2000 edifici distrutti. Una vera e propria guerra, scandita da episodi di terribile devastazione e vergognose azioni di repressione da parte della polizia e dell’esercito, culminate nella notte di terrore al motel Algiers.
Proprio a questi giorni di furore ha dedicato il suo ultimo film Kathryn Bigelow, tornata finalmente dietro la cinepresa cinque anni dopo il capolavoro Zero Dark Thirty, emblematico ritratto dell’America ai tempi della guerra al terrorismo. Detroit è un racconto corale carico di pathos e intessuto di rabbia, messo in scena con muscolare dinamismo e impeccabile coerenza narrativa, il cui fulcro è proprio la lunghissima, atroce sequenza dentro il motel, dove una pattuglia di poliziotti guidata dal sadico Krauss (l’inquietante Will Poulter, 24 anni, già visto in Come ti spaccio la famiglia) fa irruzione in cerca di un cecchino e di un’arma che in realtà non ci sono mai stati (i colpi erano stati esplosi per scherzo con una pistola giocattolo). Sotto lo sguardo perplesso e attonito di qualche soldato e dalla guardia giurata Melvin Dismukes (John Boyega, 25 anni, presto in Star Wars: gli ultimi Jedi), una sorta di “zio Tom” in bilico sul baratro, i poliziotti si lasciano andare a un’orgia di terrore e sangue, il cui bilancio finale sarà raccapricciante.
La domanda su cui si apre l’ultimo film di Kathryn Bigelow è terribile e diretta: quanta rabbia, quale infinito sconforto, quanto senso di impotenza assoluto ci vogliono per indurre qualcuno a bruciare, devastare, distruggere la propria stessa casa (quartiere, città)? La constatazione su cui il film si chiude è persino più sconfortante: giustizia non è stata fatta, né mai lo sarà. E la cronaca americana degli ultimi anni (e mesi) è lì a ricordarlo, perché l’uomo bianco non ha mai smesso di avere paura dell’uomo nero. E viceversa.
Cinquant’anni sono passati. Tantissimi, ma non sono bastati. Gli afroamericani continuano a sentirsi come se avessero sempre una pistola puntata in faccia, lo dice anche uno dei protagonisti del film. E anche i bianchi non smettono di percepire l’uomo nero come una minaccia, altrimenti non avrebbero deciso di votare in massa per uno stolto buffone come Donald Trump, pur di (tentare di) cancellare con un colpo di spugna anche solo il ricordo di Obama e della sua idea che un’altra un’America fosse possibile. Un’idea che la sua presidenza, pur durata 8 anni, non è comunque riuscita ad affermare. Perché anche con Barack e Michelle alla Casa Bianca i ragazzi neri hanno continuato a morire per mano di poliziotti razzisti e violenti. Proprio come cinquant’anni fa, a Detroit.
Qualcuno ha scritto che la Bigelow questa volta ha deluso, perché non ha approfondito il tema a sufficienza, tratteggiando con sufficiente rigore il quadro storico e la pervasività sistemica del razzismo nella società americana. Qualcuno ha aggiunto: forse perché è bianca, quindi non ha mai vissuto sulla sua pelle la sofferenza della discriminazione. In mano a un regista di colore questo film sarebbe stato diverso? Di sicuro! Ma il razzismo non riguarda solo i neri, è un problema anche dei bianchi, negli anni Sessanta come adesso. E c’è un gran bisogno oggi (nel cinema e nel mondo) della capacità della Bigelow di evitare i proclami e semplicemente immergerci nel flusso violento e sporco della vita, nei conflitti del mondo, mostrandoci da vicino (pericolosamente vicino) quello che non abbiamo mai molta voglia di sentirci dire: che i veri cattivi sono pochi e spesso dotati di una forza solo apparente, visibilmente abitata dal tarlo fragile della paura, e che forse non è così impossibile ribellarsi e metterli in condizione di non nuocere. Anche se troppo spesso non ci riusciamo.
Le vittime afroamericane che vediamo in questo film non riescono a ribellarsi, non in modo efficace, atterrite come sono e ridotte a una sorta di infantile impotenza. E nemmeno ci riescono i tanti bianchi che razzisti non sono, non amano la violenza e farebbero a meno di partecipare a qualunque guerra, sia nella giungla del Vietnam che per le strade d’America, ma sono troppo deboli per opporsi. E anche quando compiono gesti di solidarietà e umana bontà lo fanno di nascosto, quasi vergognandosi.
La Bigelow non tenta di spiegarci nulla: e giustamente, visto che ha deciso di fare un film, non un saggio e nemmeno un documentario. Solo un film. Potente, duro, rigoroso, pieno di adrenalina e di cupa energia. Ruvido, sporco e sgradevole. Profondamente sgradevole, perché con il suo stile radicalmente immersivo (con quella camera a mano che non smette mai di muoversi, nervosa e spietata) ci prende per mano portandoci nelle strade di Detroit, in mezzo al fumo e alla paura, nei corridoi insanguinati di un motel e nella notte buia del terrore dove la coscienza e la ragione si smarriscono. Ci tiene in ostaggio per due ore e mezza, facendo sentire l’orrore e l’impotenza, mostrandoci l’ottusa furia dei cattivi e la pavidità dei buoni, oltre alla nostra generale fragilità. Sì, forse la Bigelow ha messo poche didascalie alle immagini, ma francamente mi sembra tutto fuorché un difetto.