Il film di Jacques Audiard, Palma d’oro a Cannes, esaltato da attori non professionisti, racconta come la banlieue sia solo un altro luogo in cui combattere
«La natura politica del film sta nella volontà di dare un nome e una storia a personaggi anonimi e sconosciuti, e i migranti sono per definizione figure anonime. La forma del cinema può dar loro un passato, un tragitto e un futuro» (Jacques Audiard). Non è perché bisogna per forza difendere le scelte della giuria di Cannes 2015, guidata dagli adorabili fratelli Coen, che gli ha dato la Palma d’Oro; né perché Dheepan ha un tema che esce quotidianamente, e drammaticamente, dalla cronaca (la fuga di poveri e sciagurati di tutto il mondo dai loro paesi), alimentando giustamente un colossale senso di colpa nell’Occidente migliore. Difendo e consiglio di andare a vedere l’ultimo film di Jacques Audiard, premiato, secondo alcuni, nonostante sia uno dei suoi meno riusciti, perché ha forza tematica e narrativa in abbondanza per imporsi all’interesse del pubblico, anche non cinefilo, anche non ossequioso delle scelte dei festival.
Il primo punto di forza è la presenza, nei ruoli dei protagonisti, di attori non professionisti: Dheepan, combattente tamil che fugge in Francia dopo la sconfitta della sua parte nella guerra civile di Sri Lanka, ha il volto di Jesuthasan Antonythasan, che di quell’esercito ha fatto parte davvero; e Jalini, che si finge sua sposa e con lui fugge in Francia, portando con se la dodicenne Yllayaal, estranea a entrambi (la interpreta Claudine Vinasithamby), ha il dolce ma determinato piglio di Kalieaswari Srinivasan, indiana di Madras. Non c’è solo il merito di Audiard di averli saputi dirigere e amalgamare benissimo, nella loro odissea nella banlieue parigine per diventare quella vera famiglia che prima interpretano, poi finiscono per sognare sul serio, ma che non sono: c’è il fatto che grazie alla loro iniziale spontaneità, quasi non recitazione, Dheepan riesce a percorrere una traiettoria molto interessante dal naturalismo alla fiction, mentre il film vira dal dramma sociale al thriller con venature sentimentali facendo dei nostri protagonisti degli eroi in senso cinematografico, e portandoli quindi a recitare, quasi a loro insaputa, loro malgrado.
Lui, l’unico vero guerriero, forte di un’abilità, di un coraggio che nascono dalle viscere e dal terrore, stermina un numero forse inverosimile di teppistelli debosciati, depressi e senza futuro, piccoli gangster con cui ha dovuto convivere (nell’impeccabile ruolo di custode) in un condominio-galera imbottito di droga, ma che ora stanno diventando un ostacolo al suo futuro. Lei, restandogli accanto, sopravvivendo al suo lavoro di badante in un appartamento popolato di banditi paranoici dall’aria perfino romantica – almeno ai suoi occhi – e finendo per mostrare a Dheepan che nonostante tutta questa ostilità, estraneità e violenza, forse un sentimento tra loro può sbocciare. La piccola infine, incarnando uno stelo di domani in un mondo che prima o poi riuscirà forse a superare guerre, genocidi, migrazioni, povertà, ignoranza e altro.
Ma il merito del regista dei bellissimi Il profeta, ritratto claustrofobico di un leader (la scoperta Tahar Rahim), che si forgia e afferma in carcere e Un sapore di ruggine e ossa, storia di un amore impossibile, “deforme” eppure trionfante (con una strepitosa Marion Cotillard) è anche aver evitato ogni tipo di retorica umanista o antiumanista (dalla poeticizzazione dell’esule senza risorse e luce alla denuncia dello spietato militare brutto, sporco e cattivo, che pure Dheepan era), raccontando senza tentazioni documentarie o da telegiornale una storia d’amore che si colloca tra le macerie di ieri (Sri Lanka), e ancor di più dell’oggi (Parigi). Verso un domani che vediamo nell’idilliaco finale londinese, in un’Inghilterra totalmente indianizzata per luci e colori, che è sogno molto più che realtà: perché la parabola del film si è compiuta e i neo-attori, o forse sarebbe meglio dire quelle persone che sul set hanno anche un po’ improvvisato interpretando se stesse, in uno script molto aperto, sono diventati a tutto tondo personaggi di cinema.