Sono gli anni che Paolo Milone, psichiatra, ha trascorso in un reparto di psichiatria d’urgenza. Sono il tempo lungo, gli incontri, le persone mai dimenticate, il dialogo, le domande costanti, l’idea della responsabilità che costellano il suo, magmatico e bellissimo, ‘L’arte di legare le persone’
Da dove cominciare? Che cosa citare, quando ci sarebbe da citare tutto in questo “taccuino di viaggio” nella malattia mentale che ci risucchia, che ci spinge a guardare l’abisso, tra riso e pianto, orrore e allegria? In questa “Spoon River della follia”, come l’ha giustamente definita Nicola Lagioia? Un passo indietro, un’occhiata ai titoli di testa. Il libro si chiama L’arte di legare le persone (Einaudi, pagg. 198, 18.50 euro). Lo ha scritto Paolo Milone, genovese e psichiatra, classe 1954, per quarant’anni attivo prima in un Centro di salute mentale e poi in un reparto ospedaliero di psichiatria d’urgenza. È un romanzo, convenzionalmente, ma non potrebbe esserne più distante: nessuno svolgimento lineare ma un montaggio di frammenti, di schegge di prosa poetica per raccontare quegli accumuli magmatici che sono le storie di chi vive nel disagio psichico. E chi quel dolore accompagna e contrasta – medici, infermieri, parenti – nello sforzo di Sisifo, ogni giorno spingere verso la vetta la pietra che ogni giorno rotola a valle.
«La poesia» dice Paolo Milone «può essere un atteggiamento di conoscenza in un mondo senza parole. Come la ginestra di Leopardi, che spunta dalla lava, cresce nella lava. La psichiatria è impoetica, non è bella». A volte lo psichiatra d’ospedale invidia psicologi e psicoterapeuti: colleghi che si trovano di fronte pazienti in cerca di terapia, che provano a raccontarsi, con i quali è possibile stringere un patto.
Niente di tutto questo al pronto soccorso, in ospedale, nei momenti di crisi acuta: lì bisogna intervenire subito e impedire che chi è ammalato “nuoccia a se stesso e agli altri”. E quindi sedarlo, contenerlo, attendere che le medicine facciano effetto. Il dialogo, l’ascolto, l’interlocuzione, se è possibile, comincia al terzo giorno o al quarto.
Non è un dialogo lineare, chi venera la razionalità spesso deve riconoscerne lo scacco: le parole e le stesse espressioni non verbali dei pazienti sono ambivalenti, ogni cosa allude a qualcos’altro. L’importante è osservare, capire le emozioni, entrare in comunicazione e non mollare la presa. L’arte di legare le persone, la definisce Milone.
L’arte di legare le persone.
Legare le persone al letto.
Legare le persone a te.
Legare le persone alla realtà.
Legare le persone a se stesse.
Legare le persone è un’arte.
Inconoscibile.
Il titolo – polemico – del libro e la pratica della contenzione, oggi sempre meno usata, hanno fatto insorgere alcune anime belle e qualche vagheggiatore di mondi perfetti, di condizioni ideali della pratica medica: gli antipsichiatri per cui la malattia mentale non esiste (per loro aveva parole assai dure l’Alan Bennett del bellissimo Una vita come le altre che raccontava con dolente dignità la lunga depressione di sua madre), i sostenitori dell’ascolto gentile (ma è difficile, nel qui ed ora del pronto soccorso, mettersi in ascolto di chi sta spaccando tutto o di chi si taglia con una lametta e dirgli fermati, parliamone. Prima, banale ma indispensabile, bisogna immobilizzarlo e/o togliergli di mano la lametta, vedere che non ne abbia altre nascoste), gli apologeti della terapia della parola (ma per chi non parla e non si trova, non si riconosce, ricorda Milone, “la parola è paglia”).
Non ne vorrei fare una questione teorica: non sono un esperto di psichiatria e non amo avventurarmi in territori che non conosco, dire la mia su cose che non so. Ma l’atteggiamento di Milone, più che a una dogmatica, rimanda a un modo di stare al mondo. «La psichiatria» ha spiegato «è immergersi nella psicosi, mettere i piedi nell’acqua». Anche a costo di svuotare il mare con un cucchiaio: ciò che, nella vita di tutti i giorni, è concreto altruismo e civismo, contro chi non muove un dito perché “c’è ben altro” e “però così le cose non cambiano”. Nella nota finale del suo libro, Milone ricapitola: «Io non sono un nostalgico della vecchia Psichiatria: la questione non è contenere o non contenere, ma fare o non fare una buona Psichiatria. Il vero discrimine è non abbandonare il paziente». E L’arte di legare le persone è un libro di storie e di domande, più che di risposte. Con un unico faro:
Il bene e il male che facciamo a un’altra persona si riverbera
e si propaga in mille modi
tra i suoi parenti, amici e conoscenti
e, nel tempo, si trasmette a tutti i discendenti.
Sarà qualcosa di infinitesimo, un movimento atomico,
un’ombra, un fremito, ma esiste e si diffonde nell’universo.
Vedi, Giulia, noi contribuiamo a migliorare o peggiorare
l’universo
e, su questo, abbiamo una responsabilità.
Saranno pochi, saranno molti i matti? Ci siamo anche noi, i nostri vicini di casa, fra loro? Solo “un tiro di dadi” ci assegna fra i normali, al di qua del muro. E spesso il dialogo tra medico e paziente – lo spiega l’io narrante alla tirocinante Giulia – è dialogo fra due follie diverse.
Non li vedrete mai.
Non li sentirete mai.
Non sospettate neppure la loro esistenza.
Eppure sono tanti: centinaia, migliaia in una città.
Stanno chiusi nella loro stanza.
Sopravvivono per anni.
Se non svuotano i pitali dalla finestra,
se non picchiano i genitori,
se non urlano nella notte dal poggiolo o sul pianerottolo,
possono restare sulla loro isola anche venti, trent’anni,
come Robinson Crusoe.
Quando hanno abbandonato l’isola o sono stati costretti a farlo, accade che incontrino Milone e restino impigliati nella prosa vertiginosa del suo libro. Come l’intrepida Lucrezia per cui vivere è un atto quotidiano di coraggio, autolesionista implacabile e indimenticabile che sente le voci, personaggio tra i più belli e lancinanti che mi sia accaduto di leggere. Lucrezia furba e saggia, che nasconde lamette e rompe il naso a uno stalker, che prova a lavorare e si sposa, che dà suggerimenti a Milone (suggerimenti accolti) su quali pazienti dimettere e quali trattenere.
L’infermiera si avvicina alle mie orecchie e sussurra:
Lucrezia non c’è, né in camera né in bagno.
Ahia! È notte e partiamo alla luce delle torce, per non svegliare tutti, stanza per stanza.
Ti troviamo nel letto della diciottenne appena ricoverata,
tenera ragazza, figlia di avvocati.
Siete nude. Io ho un impeto e levo alta la mano per dividervi, quando vi vedo alla luce:
dormite serene, i visini giovani, uno vicino all’altro.
Due bambine.
Non ti ho mai vista così in pace.
Malattie trasmissibili non ne avete…
sussurro agli infermieri: via, via, lasciamole dormire.
Gli infermieri mi guardano. Ho detto: via.
Domani una delle due la dimettiamo,
ma ora, lasciamole dormire.
Lucrezia amata, seguita e inseguita, dentro e fuori l’ospedale. Lucrezia che una notte scapperà per non fare ritorno, addio per sempre. Un rimpianto che percorre tutto il libro, un lutto difficile da elaborare, una ferita che non si rimargina. Come accade per gli altri suicidi che si fanno vento per essere più forti del dolore, più forti della paura, più forti del rancore.
Poi ci sono gli altri, tutta la folla degli altri, dolci e tristi come le donne che si sentono di troppo, strabordanti come gli euforici che vanno a Roma per dare consigli al Papa, esagitati come i tossici si vendono anche il water di casa per una dose, affettuosi come lo schizofrenico che con un abbraccio incrina due costole allo psichiatra, allegri come i trans che quando passa per i carrugi gli gridano ciao Paolo e lo salutano con la mano, angosciosi come il paranoico barricato nel suo appartamento. Personaggi, anzi persone alle quali ci si affeziona, perché in tutti loro non è scomparsa, e Milone la rende palpabile, la sacertà dell’essere umano.
E in questa prosa che sale e scende come la sua Genova – la Genova fatta a scale di Caproni, la Genova dei vicoli di Fabrizio De André, la Genova che alla fine di ogni sguardo, di ogni inseguimento ha il mare che rappacifica, abbraccia e “contiene” –, in questa prosa che deve molto alla fulmineità degli epigrammi di Marziale, all’improvvisazione del Miles Davis più classico (melodia-improvvisazione-melodia come ordine-caos-ordine), al verseggiare franto di Piero Jahier, c’è il nocciolo pulsante, il calore dell’empatia, dell’accoglienza.
Non usare parole nuove, moderne, appena nate,
camminano a quattro zampe, si infilano dappertutto
e le trovi dove non possono stare.
Non usare con me parole vecchie, auliche, importanti,
paiono voler dire chissà che ma poi non dicono nulla.
Non usare con me parole di altri, appena udite e subito
imparate,
io mi distraggo e guardo dalla finestra
più interessato al gracidare delle rane.
Non usare con me altre parole che non siano le tue.
Le accoglierò come ospiti care in ritardo a una festa,
sbatterò la pioggia dai loro vestiti, riporrò i loro ombrelli
e le farò accomodare in salotto.
L’arte di legare le persone è un libro prezioso. Che lavora a lungo dentro di noi, che cresce e lievita.
In apertura: foto di JJ Ying/unsplash