Uno dei capolavori della stagione del fotoreportage americano torna in libreria, grazie al Saggiatore. ‘Sia lode agli uomini di fama’ di James Agee e Walker Evans mantiene intatta la sua forza espressiva nel ritrarre e raccontare la vita di tre famiglie di fittavoli in Alabama durante la Grande Depressione. E rilancia domande importanti sulla rappresentazione del dolore e della fatica di vivere
Nel 1936 la rivista americana Fortune contatta lo scrittore James Agee per commissionargli un articolo sulla vita dei fittavoli degli Stati Uniti del Sud. Agee incontra immediatamente l’amico fotografo Walker Evans per proporgli di accompagnarlo nel viaggio e occuparsi delle fotografie che avrebbero dovuto corredare il reportage. Il 16 luglio di quell’anno i due partono alla volta di Hale County, in Alabama dove trascorrono tre mesi (fino al 15 settembre) con due famiglie di fittavoli per raccontarne l’esperienza – a parole e per immagini. Il risultato è un articolo molto lungo e complesso a cui Agee lavora in continuazione: il pezzo, così come arriva in redazione, è considerato impubblicabile. Agee continua a tornarci su e nel 1941 ha per le mani circa quattrocento pagine: bisogna farne un libro che esce in quello stesso anno per i tipi di Houghton Mifflin. Si tratta di Sia lode ora agli uomini di fama, uno dei capolavori della stagione documentaria della Grande Depressione, ora tornato nelle librerie italiane grazie al Saggiatore.
Sono anni, quelli del viaggio di Agee ed Evans, in cui si diffonde capillarmente un’estetica documentaria e di reportage che vede, in America, la diffusione di quello che è stato denominato photo-essay book, una serie di opere sulle condizioni socio-economiche dei lavoratori durante la Grande Depressione realizzate in collaborazione da scrittori e fotografi. Gli anni Trenta, infatti, sono percepiti come un periodo in cui la letteratura di finzione veniva considerata come un’attività frivola per un tempo di cataclismi sociali e, contemporaneamente, si assiste a un fervore culturale che coinvolge romanzieri, giornalisti, registi, storici, sociologi, antropologi e fotografi, anche grazie ai progetti federali promossi dalla politica del New Deal di Roosevelt, come il Federal Writers’ Project (FWP) e la Farm Security Administration (FSA). In questo contesto fioriscono reportage, documentazioni fotografiche e analisi sociologiche che spronano gli intellettuali a ripensare la loro azione sul campo e le forme d’espressione per un mutato panorama socio-economico, che comporta un graduale spostamento della marginalità verso il centro del campo narrativo, in termini tanto di visibilità dei soggetti rappresentati che di posizionamento nel mercato editoriale.
Fra il 1937 e il 1941, in particolare, vengono pubblicati numerosi fototesti documentari, a partire da You Have Seen Their Faces di Margaret Bourke-White e Erskine Caldwell, Land of the Free di Archibald MacLeish, An American Exodus di Dorothea Lange e Paul Taylor, Home Town di Sherwood Anderson, 12 Million Black Voices, meraviglioso racconto corale di protesta contro la condizione dei neri, fino ad arrivare a Sia lode ora agli uomini di fama, che venne salutato come un libro “scritto per esaurire tutti i libri documentari” (la definizione è di Alfred Kazin) che “rappresenta una rivolta contro l’automatismo della scuola documentaria”, “un attacco ai meccanismi facili e alla passività di molti incarichi documentaristici”.
Da allora l’opera di Agee ed Evans è rimasta un punto di riferimento per ogni operazione documentaria in letteratura: non a caso nel 2008 William T. Vollmann apre il suo Poor people, – reportage in cui l’autore va in giro per il mondo a chiedere alle persone “Perché sei povero?” – con una introduzione in cui paga il suo debito a Sia lode ora agli uomini di fama, esponendone i problemi e le contraddizioni e tuttavia senza mai dubitare del suo statuto di capolavoro del genere. Vollmann considera il libro di Agee ed Evans un successo perché, in realtà, fallisce nel suo intento e la grandezza dell’opera è data proprio dalla tensione tragica con cui protende verso il suo obiettivo. Eppure, per Vollmann, Sia lode è l’espressione elitaria di un desiderio egualitario, è un fallimento perché consiste in due persone ricche che osservano la vita dei poveri e quindi deve necessariamente fare i conti con una serie di asimmetrie (economiche, sociali, culturali) fra gli osservatori, i soggetti osservati e il pubblico cui questi libri si rivolgono.
Sono preoccupazioni che naturalmente Agee ed Evans non ignoravano e dunque cercano di porsi in chiara opposizione rispetto a una tendenza voyeuristica e predatoria, a una visione sentimentalista e paternalista che riscontravano nei libri documentari di quel periodo. Così l’estro iper-riflessivo di Agee trasforma l’esplorazione e la documentazione quasi in un mezzo per riflettere sui limiti e sulle possibilità della narrazione documentaria stessa e riporta la realtà delle famiglie dei fittavoli dell’Alabama in una forma di rappresentazione lirica che si immerge a pieno nella realtà ritratta: Agee cerca di farci sentire, odorare, ascoltare quello che ha sentito, odorato e ascoltato lui in prima persona entrando in contatto diretto con quelle persone, cerca di riprodurre un’esperienza vissuta, e di ricreare nei minimi dettagli un mondo con una scrupolosità quasi maniacale che non ritiene nulla essere tanto indegno da non poter entrare nei suoi interminabili cataloghi di oggetti, costruiti in maniera tale da restituire un’inaspettata armonia. Tanto lo sguardo fotografico di Evans che la penna di Agee ricercano una sorta di umana dignità nel mondo che stanno ritraendo. E basta aprire il libro e guardare le fotografie per averne una prima icastica testimonianza.
I soggetti ritratti da Evans non sono mai colti di sorpresa e sono sempre consapevoli di essere fotografati, le immagini sono per lo più frontali e che siano persone o scarni interni domestici o oggetti logorati dall’uso come un paio di scarponi rotti mostrano sempre un tentativo di ricerca di dignità nel quotidiano e nella miseria: tutto ciò che determina e costituisce la quotidianità è catturato dallo sguardo frontale e soggettivo di Evans. Alle fotografie, che non illustrano il testo, come avvertono gli stessi autori, ma conducono un discorso altro e parallelo, che si interseca e crea interferenza, rispondono le parole di Agee, nel tentativo di far emergere anche la bellezza tragica della vita delle tre famiglie di fittavoli rappresentati: così gli oggetti e gli interni delle case sono trattati quasi in maniera sacrale, di una religiosità scarna e composta, volta a restituire individualità e unicità alle famiglie raccontate, senza ridurle a freddi casi di studio o a un popolo abbrutito (come, al contrario, spesso avveniva).
Un’umanità, insomma, ritratta con sofferenza partecipata – al punto tale che la soggettività di Agee a volte straborda e si ripiega su stessa – e che pure non cerca una risposta empatica nel lettore o una facile commozione. Tutto all’opposto. E, infatti, l’opera non ha un fine pragmatico e immediato, è piuttosto caratterizzata da un tono tragico ed elegiaco, messo in mostra sin dal titolo che richiama, in maniera ironica, un verso del Siracide, con il quale si annunciava, appunto, un’elegia per i morti. Ma è anche un’elegia tutta personale del suo scrittore: la scrittura che il contatto con le famiglie ha indotto, ricordava Walker Evans nel 1960, è anche, fra le altre cose, “la riflessione di una risoluta, privata ribellione. La ribellione di Agee fu inestinguibile, autolesionista, profondamente di buoni principi, infinitamente gravosa e sostanzialmente senza prezzo”.