Ieri, oggi, altrove: in ‘Ciao Vita’ di Giampiero Rigosi la saga di un’amicizia maschile e le grandi domande del vivere e del finire
Oggi, ieri e altrove. Scorre su tre binari paralleli Ciao Vita (pagg. 528, 20 euro), storia di amicizia, ricapitolazione di tradimenti, saga di una giovinezza negli anni ’80. Lo ha scritto Giampiero Rigosi (Bologna, 1962) che è buon giallista (ottimo l’esordio nel 1995 per Theoria, Dove finisce il sentiero, poi una serie di romanzi per Einaudi da solo e con Carlo Lucarelli) e sceneggiatore apprezzato (L’ispettore Coliandro, La porta rossa).
Oggi, ovvero il romanzo “classico” in terza persona. Sergio, regista, torna a Roma da un sopralluogo nelle Eolie, dove dovrebbe girare una serie per la Rai. È un “regista affermato” o un mestierante in declino? È in pace con se stesso o soltanto adagiato nella routine? E la sua relazione con Francesca che lo tradisce con un ortodonzista (sushi, centrifughe e denti da raddrizzare, che orrore!) attraversa una fase di stanca o sta scivolando sul piano inclinato della fine? La serie non si farà: alla Rai mettono i bastoni fra le ruote, vogliono una location romana facile da gestire e non costosa, con il mare aggiunto al computer in post-produzione. E lui andrà via sbattendo la porta (meglio, con uno scatto di nervi del quale sulle prime si pentirà, ma inutilmente). Intanto il telefono squilla: è Anna, sorella del suo amico Vitaliano che da ragazzi tutti chiamavano Vita. Non si vedono da più di trent’anni, Vita era fuggito in Venezuela dopo avere disertato dal servizio di leva, ora è tornato. Ha una malattia degenerativa all’ultimo stadio, la dermatomiosite che gli aggredisce muscoli e pelle, non si muove più e ne ha per poco. Vorrebbe vederlo, Sergio reagisce alla richiesta con imbarazzo, quasi con fastidio, il passato per lui sembra una terra straniera. Alla fine però andrà a Bologna.
Ieri, ovvero la rammemorazione del passato: la fa Vitaliano, in prima persona, a capitoli che si alternano al romanzo in terza persona. Dai giorni in cui si conobbero, sui banchi delle medie, e a legarli furono Huck Finn e Tom Sawyer. Divennero inseparabili, negli anni del liceo e dell’università, quando Bologna scintillava di un’esplosiva creatività. Sergio era il polo forte dell’amicizia, Vita quello debole. Sergio il volitivo, Vita il “despreocupado de la vida”, come avrebbe imparato a dire a Caracas: quello che campa alla giornata. Sergio che studia e fa politica nei collettivi giovanili di sinistra, Vita che si buca. Sarà Sergio a guarirlo, a disintossicarlo: dopo essersi offerto di provare l’eroina anche lui, per non lasciare solo l’amico, se lo porta in Appennino, nella vecchia casa del nonno. Staranno lì per i quindici giorni delle vacanze di Natale, senza nessuno intorno, e Vita proverà l’astinenza, ma riuscirà a resistere, a venirne fuori. Resta, di quel periodo, un libretto: la Lettera sulla felicità di Epicuro. Che Vita conserva tra i libri della cameretta dov’è riapprodato, ormai ridotto quasi alla paralisi: tornato ragazzo, come quando dormiva fino a tardi, ma vecchio e vinto. Nella lettera di Epicuro c’è una frase, ricopiata in greco da Sergio, “Combatteremo fino alla fine”.
Oggi. C’è un’incrinatura, una faglia nel lento emergere di Sergio a se stesso. Vita, nel loro incontro impacciato, gli ha ricordato un’antica promessa, scambiata in una notte di ubriachezza: se uno dei due si fosse trovato vicino alla fine, l’altro l’avrebbe aiutato a fare il salto. Sergio è turbato, non sa se davvero vuole e se avrà il coraggio, non sa se sia la scelta giusta. Intanto però comincia a leggere libri – filosofici, di testimonianza – sul fine vita. Francesca, preoccupata dalla metamorfosi di Sergio, trova fra quei libri sottolineata una frase: “Distogliere lo sguardo – sottrarsi – è l’inizio della disonestà”. Sergio si allontana: da lei, da Roma, dal mondo del cinema. Ha deciso che si stabilirà a Bologna, non sa per quanto, per stare vicino all’amico. Con Francesca finisce senza neanche bisogno che se lo dicano: con lui che non reagisce alla notizia che c’è un altro uomo, come non risponde alle telefonate del produttore che lo ha scaricato e che vuole fargli nuove proposte. Da sconfitto ad assente, a “uomo che non c’è più”. A Bologna sta per mesi, assistendo Vita sino alla fine, in uno sviluppo narrativo che non è lecito rivelare. E, morto Vita, decidendo di stabilirsi nella vecchia casa del nonno, sull’Appennino, per riallacciare i fili della vocazione giovanile alla scrittura che aveva accantonato, che forse aveva tradito.
Ieri. Bologna, fine degli anni ’70 e inizio degli ’80. Anni di studio e d’arte, di passione per il cinema e per la musica (gli esergo che scandiscono le varie parti del romanzo sono tratti da Wish you were here dei Pink Floyd ma c’è molto altro, un’intera e sontuosa soundtrack, io ci ho scoperto fra gli altri lo splendido Upon reflection, album del 1979 del sassofonista inglese John Surman), di letteratura (i loro testi li legge il poeta Roberto Roversi, che li incoraggia), di viaggi e di amori. Saranno il cinema (un film on the road girato insieme con mezzi di fortuna, che viene lodato da Pupi Avati e attira l’attenzione di un produttore romano: per Vita accettare le sue proposte è vendersi l’anima, per Sergio è diventare adulti) e l’amore di entrambi per Elena, un piccolo menàge à trois rustego, a dividerli. Vita si fa da parte nella maniera più traumatica: rendendosi sgradevole agli occhi di Elena, in modo che scelga Sergio. Consegnandosi alla naja, mentre Sergio, che fa il servizio civile, tenta di dissuaderlo. Disertando infine e mettendo un oceano fra loro, fino a oggi, all’incontro a fine partita.
Chi ha tradito chi? E chi ha tradito se stesso? In misura diversa, tutti e due traditori, tutti e due traditi. Tradire e cambiare sono sinonimi? Ed è possibile mantenersi intimamente fedeli a se stessi nel corso della vita, conservare quel che i greci chiamavano l’antòs, il profondo se stesso?L’autenticità non può fare riferimento a un’identità stabile (sono sempre io quel che esistendo cambia?). E la verità è un gioco assai complicato quando è disgiunto dall’amore (anche l’amicizia è una forma di amore), il solo sentimento che sa tracciare alla verità lo stretto sentiero in cui è possibile dire qualcosa di vero.
Altrove. Nella sua casa sull’Appennino, moderno eremita con il computer, Sergio riprende le pagine che aveva scritto in gioventù: un “piccolo libro di traditi e traditori” che, tra le molte cose belle di questo intenso romanzo, è tra le più belle. Davanti a noi sfilano Abramo e suo figlio Isacco, tradito per scegliere Dio. Pat Garrett e Billy the Kid, amici d’infanzia diventati uno sceriffo e l’altro pistolero, con il primo che uccide il secondo. Giuda e Gesù dove, riprendendo la lezione dei vangeli gnostici, Giuda più che traditore è pedina essenziale perché si compia il disegno divino. Orfeo ed Euridice, dove Orfeo che si volta a vedere la sua sposa sulla soglia dell’Ade, trasgredendo il divieto, forse adempie al desiderio di lei, incapace di tornare a vivere dopo avere varcato quel confine. Queequeg e Ishmael del Moby Dick, con la bara del primo che diventa scialuppa e mezzo di salvezza del secondo. E soprattutto Max Brod, amico inseparabile di Franz Kafka e suo esecutore testamentario, che tradisce le volontà dello scrittore praghese di distruggere la sua opera, assicurandone la gloria postuma. C’è, in quest’ultima storia di tradimenti, un apologo commovente.
Kafka, nell’ultimo anno di vita, si è trasferito a Berlino con la giovane Dora Diamant e ha smesso di scrivere, convinto dell’inutilità dei suoi sforzi. Riprenderà la penna in mano, per un mese, soltanto per fare ritrovare il sorriso a un bambina che ha visto in lacrime perché ha perso la bambola. No, risponde Kafka, non l’hai persa, la tua bambola ha deciso di fare un viaggio, ma ti scriverà raccontandoti tutto quel che vede. E mantiene la promessa.
Scrivere per medicare le ferite. E, nell’impossibilità di tornare al passato, ritrovare una ragione di coerenza – e di consonanza con gli slanci della gioventù – nella presa d’atto di quel che offre il tramonto. “È una bella giornata di sole, fredda ma limpida. Le fronde degli alberi vibrano al vento, rosse, ocra, porpora, gialle, arancioni, e il fianco della collina è coperto di foglie cadute. C’è una bellezza ancora più effimera della primaverile: quella dell’autunno, quando le cose della natura brillano degli ultimi colori prima che la pioggia e il freddo li spengano. Allo stesso modo, ora lo so, anche nei volti degli anziani e dei moribondi traspare una bellezza delicata e commovente, proprio perché si manifesta per l’ultima volta prima di scomparire per sempre. L’energia necessaria alla sopravvivenza porta gli uomini ad apprezzare in modo particolare la bellezza sfrontata della giovinezza, quando il tempo della riproduzione deve ancora venire e tutto sembra possibile. Forse occorre almeno avere assaporato l’età avanzata per scoprire il fascino che si nasconde in ciò che è davvero caduco e fugace: non i toni sgargianti dei fiori o il verde saturo delle gemme appena spuntate, ma le sfumature di ambra e rame del fogliame che sta per cadere”.
In apertura: foto di Aaron Burden/Unsplash