Compositrice in “residence” di Divertimento Ensemble per tutto il 2019, la giovane musicista asiatica ha un curriculum di tutto rispetto tra cui due anni al prestigioso IRCAM di Parigi e un corso universitario a Buffalo. Ecco i suoi progetti per il futuro
In Still, yet, and again, il brano di Diana Soh che concludeva il concerto di Divertimento Ensemble del 25 maggio al Conservatorio, la compositrice ha inserito, oltre agli strumenti convenzionali, anche alcuni giocattoli della figlia piccola, portando sul palco (e nella propria musica) una parte dello spirito giocoso e sornione che la contraddistingue.
Una serata in cui l’aspetto ludico del fare musica ha pervaso l’atmosfera della sala e divertito il pubblico anche grazie ai brani di Simone Corti e Stefano Gervasoni nati dal progetto Giocare la Musica, un percorso che ha visto la collaborazione con bambini delle scuole primarie per la realizzazione dei due lavori, rispettivamente intitolati Prima persona plurale e Chi?
Nel corso di Rondò 2019 (la stagione di musica contemporanea organizzata da Divertimento Ensemble) abbiamo imparato a conoscere l’effervescenza della musica della giovane (1984) compositrice di Singapore, ritmicamente briosa, timbricamente ricercata, insomma interessante e attuale rispetto al panorama medio di ciò che siamo abituati a sentire, in cui il manierismo dell’avanguardia è sempre pronto a fare capolino. Anche senza poterne vedere la partitura e studiarla con attenzione, la sua musica si imprime nella nostra mente e ci pone di fronte a qualcosa di umano, di personale, che non lascia indifferenti. La tecnica che la Soh dimostra di possedere non soffoca ciò che di più personale e intimo nasconde nelle sue partiture.
Dopo aver ascoltato la sua musica non sorprende, conoscendola, il suo carattere solare e genuino. Non si formalizza, risponde in maniera molto personale alle domande, non si nasconde dietro frasi fatte, non ha paura di mostrare sé stessa, i suoi dubbi come le sue certezze. Forse anche per questo la sua musica ci parla, che ci piaccia o meno.
Hai studiato all’IRCAM di Parigi e all’università di Buffalo. Che tesi hai fatto alla fine del percorso?
Non bisognava fare una tesi molto lunga ma piuttosto scrivere un pezzo basato sui propri studi e interessi, nel mio caso l’Opera del XXI secolo.
Parlando ancora della tua formazione, mi raccontavi che hai studiato quattro anni pianoforte a Singapore…
Si, infatti. Ho studiato lì e poi a Buffalo durante il primo anno, dopodiché ho smesso. Oggi non so più suonare (ride). All’IRCAM ho lavorato per due anni e ho imparato moltissimo ma non avevo davvero il tempo per fare altro.
A parte questo come è stata la tua esperienza all’IRCAM?
So che non tutti i miei compagni si sono trovati bene ma per me è stata ottima. Ho studiato principalmente con Mauro Lanza (compositore italiano ndr). Ho composto un pezzo alla fine di ognuno dei due anni, il primo per strumento solo ed elettronica e il secondo per ensemble. Ricordo che una volta ho quasi travolto Boulez: l’IRCAM ha un ascensore che porta direttamente al piano dove studiavo e dove lui aveva il suo studio. Sono uscita dall’ascensore dando le spalle alla porta e quando mi sono girata l’ho quasi fatto cadere: “Sorry, sorry, sorry!” – mi sono scusata (ride). Poi ho saputo che lo stesso giorno un altro compositore che stava andando in bicicletta all’IRCAM lo ha quasi investito, Che giornata (ride ancora)!
Una delle cose che può sorprendere oggi è la quantità di musica presente nelle nostre vite. Ognuno ha il proprio modo di avere a che fare con la musica, la propria idea di musica, di ogni musica. Come vivi questa abbondanza, tu che della musica hai fatto una professione?
Diciamo che in palestra non mi metto certo ad ascoltare Sciarrino. Se voglio correre metto in cuffia Britney Spears. E’ come la vita: ogni tanto hai voglia di sushi, altre volte di un pasticcino, dipende. Così penso della musica. Ogni giorno invento canzoni con mia figlia alla chitarra, che suono io, e non credo che questo sia meno importante; si tratta di trovare diversi modi per essere creativi in ogni contesto, così che le cose si completino a vicenda.
Sciarrino e Britney Spears, ma se dovessi nominare qualcuno dei tuoi compositori preferiti?…
Penso che i gusti cambino. Cambiano con la crescita, cambiano a seconda del contesto. Potrei amare il brano di una persona e riascoltarlo dieci anni dopo e odiarlo. Così non saprei…
Davvero, non hai nessuno che ha un posto speciale nel tuo cuore?
Beh si, ovviamente c’è qualcuno di speciale! (risata) Come la prima volta che ho ascoltato… Voglio dire, le prime volte sono sempre importanti: la prima volta che senti qualcosa che ti colpisce profondamente ti fa pensare. Dopo, ovviamente, ascolti altre cose che ti piacciono, ma non hanno lo stesso valore della prima. E anche io ho alcuni compositori che da quando li ho incontrati rimangono importanti. Penso a Webern: c’è una sua opera per pianoforte che per me è stata importantissima, credo fosse l’op. 27. Sono tre brani e in quello centrale Webern ha scritto la chiave di basso nel rigo superiore e la chiave di violino in basso e così, se guardi lo spartito, capisci che lui vuole farti fare questo (mentre parla simula un incrocio di mani). Da piccola non capivo e mi chiedevo il motivo di questa assurdità; suonavo il pezzo senza incrociare le mani. Soltanto dopo ho capito che voleva proprio che le mani si muovessero in quel modo. Quando pensi a Webern non diresti che è un compositore interessato alla gestualità o alla coreografia, eppure lo è stato, e mi ha trasmesso questo interesse: realizzare che ho il potere di controllare il “movimento” di un musicista e non solo il suono, questo mi ha aperto una porta. È stato importante. Un altro compositore della “prima volta” è stato Ligeti; quando ho iniziato a studiare la sua musica e ho affrontato tutti i diversi stadi del suo stile compositivo – se vogliamo parlare di stile – mi ha fatto capire che tutto è possibile: che crescerò e cambierò. È naturale e giusto. Sai, quando sei giovane ti dicono di trovare la “tua voce”, di capire chi sei… ma io penso che si cambi! Domani sarò una persona diversa da come sono oggi. Se sei un cantante, ogni giorno sei abituato a lavorare con uno strumento diverso da quello del giorno precedente perché ci sono le emozioni, il fisico, perfino il clima che ti cambiano.
A parte queste influenze, in che modo pensi abbiano influito le tue origini sulla musica?
Singapore è una nazione molto giovane, abbiamo ereditato musica asiatica legata alla Malesia e all’Indonesia, ma siamo anche una città di commercio e scambio così il nostro background culturale è legato alle musiche tradizionali asiatiche, il gamelan, e alla tradizione orale. Per noi la musica classica è la musica classica occidentale che per molti versi è elitaria: si ha bisogno di soldi per poterla studiare e noi non abbiamo una storia come voi europei. Il vostro bagaglio è “pesante”, mentre io sono completamente libera. Come compositrice di Singapore, proprio perché non sento questo peso, sento di poter dire: “Se domani voglio drag queen nella mia opera lo posso fare e nessuno avrà niente da dire al riguardo.”
Che ruolo pensi di avere, come compositrice, nel mondo di oggi, nella nostra società…
Il nostro lavoro è di rompere le abitudini. Tutti abbiamo abitudini: di ascolto, culturali, culinarie. Spesso facciamo le cose in un certo modo semplicemente perché qualcuno ci ha detto che vanno fatte così; il nostro lavoro è di provare a dire che magari ci sono altri modi per fare le cose, proviamo semplicemente a rompere un pochino le abitudini per far scoprire cose nuove. Io penso che gli artisti nella società siano molto importanti. Gli artisti propongono alternative.
Così quando componi pensi di riempire un vuoto?
Dipende. Ci sono tematiche come quelle legate al femminismo che ritengo importanti, le donne oggi vengano pagate meno e devono combinare lavoro e maternità. Ma non penso che problematiche come queste o la politica possano essere inserite nella musica da concerto. Penso che vadano insinuate domande non idee. Se pensi a Luigi Nono… lui sì che era elitario. Questa è l’ironia: poter permettersi di stare in una stanza seduto a pensare a come migliorare il mondo, sei già in una posizione privilegiata rispetto a chi lavora tutto il giorno, o non ha una casa, e deve semplicemente andare avanti, senza avere il tempo per pensare. E’ un privilegio e se ci pensi troppo a lungo finisci per non scrivere più musica, perché è un lusso scrivere musica. Bisogna essere determinati, puntare alla meta, cercare di non distrarsi troppo mantenendo allo stesso tempo una visione ampia, credo.
Quando mi hanno chiesto di intervistarti ho pensato alle memorabili interviste nel programma di Berio C’è musica e musica … Cos’è la musica per te?
Non credo di poterla definire perché se trovassi me stessa smetterei di scrivere musica.
Dunque è una ricerca…
Sì, e bisogna continuare a cercare. E’ il mio spazio privato, non mi piace parlare di musica, non mi piace condividere i miei appunti. Sandro (Gorli ndr) mi ha chiesto una volta di poter vedere il mio pezzo, i miei appunti e io ho risposto di no. Lui è rimasto sorpreso perché solitamente le persone amano condividere, ma per me è uno spazio molto protetto. Adesso che sono madre e moglie non ho molto tempo per me stessa; stare seduta al parco e riflettere e scrivere è un privilegio, un grande privilegio che ho. Sono in cerca, e credo che sia questa la ragione per cui scrivo.
Sentendoti parlare del tempo che rivendichi per te stessa e del tuo spazio protetto mi chiedo come vivi il tuo rapporto con il pubblico, se ti senti mai sola.
Bisogna avere a che fare con la solitudine: la nostra è una professione molto solitaria. Intendo dire che si cerca di comunicare il più possibile attraverso i musicisti che interpretano la tua musica: loro sono come un filtro. Noi compositori siamo sempre filtrati. Abbiamo qualcosa nella nostra testa, i musicisti devono ricostruire cosa c’è lì dentro e filtrarlo attraverso il loro corpo, e ognuno ha diverse vibrazioni, diversi livelli di energia, diversi modi di suonare cose diverse, e soltanto dopo questo passaggio la musica arriva al pubblico, e quando questo lo riceve è ancora filtrata dal bagaglio culturale di ciascuno.
Hai parlato spesso dell’aspetto visivo della musica.
Penso che i musicisti comunichino sempre, giusto? E sono umani. Molte cose non dette stanno nel tono di voce, nei gesti, nel linguaggio del corpo. Allo stesso modo succede sul palco, nelle sale da concerto. Credo che questo sia molto interessante… credo che potremmo dire che sia una delle ragioni per cui la gente va ancora ad ascoltare musica dal vivo. Ci sono cose che non si possono toccare ma vedere, sentire, percepire, e questo è diverso da un disco. Il disco è perfetto e “finto” e implica una mentalità d’ascolto diversa; quando vai ad un concerto puoi percepire l’aspetto umano, vedere come le piccole cose, uno sguardo tra i musicisti mentre suonano o il gesto del direttore, cambino completamente il risultato sonoro. Questo è molto interessante e ho iniziato a capire che è possibile considerarlo come materiale compositivo.
Stravinsky parla di chi ascolta la musica ad occhi chiusi e chi invece guarda i musicisti suonare…
Dipende dal pezzo che stai ascoltando, dal contesto e dal brano. Per esempio, hanno eseguito il nuovo brano di Haas (Georg Friedrich, compositore austriaco ndr) completamente al buio, oscurando addirittura le luci delle uscite di sicurezza, buio completo. Lui stesso ha detto che l’esperienza del buio in questo brano è importante come la musica.