Certe cose non cambiano mai: come la vera crociata contro l’aborto legale portata avanti negli Stati Uniti dai conservatori e dai movimenti cosiddetti prolife. Stavolta l’offensiva contro l’aborto farmacologico arriva dal Texas ed è andata a scomodare, udite udite, una legge del 1873…
Negli Stati Uniti, più della metà degli aborti si esegue farmacologicamente grazie alla pillola chiamata Mifepristone, un ormone che blocca il suo collega progesterone e che, se presa entro il primo periodo di gravidanza in associazione con un altro medicinale, la termina. Non è una novità: la pillola venne approvata più di vent’anni fa dall’ente federale incaricato di certificare tutti i medicinali, l’FDA (Food and Drug Administration). È una medicina utilizzata di sovente e generalmente non è pericolosa.
È sempre stata considerata una procedura di normale amministrazione, fino alla settimana scorsa e cioè durante la settimanasSanta, festa della Rinascita oltre che del Cristo, anche di alcuni pensieri antiabortisti nella testa di un paio di texani. Specificamente, è resuscitato il tentativo di bannare l’aborto, non solo nello Stato, dove è già vietato, mifepristone compreso, ma in tutta la nazione.
L’ideona è nata nel crapone del giudice Thomas O. Rice, che d’un tratto ordina all’FDA di eliminare la pillola in questione nel suo stato. Sottolineo un’ovvietà: il giudice Rice non ha mai conseguito una laurea in medicina o in farmacologia, per cui non ha nessuna conoscenza e men che meno autorità scientifica riguardo la decisione su quali medicinali usare o meno, soprattutto quelli approvati vent’anni prima da chi è competente in materia.
Ma questo divieto ha provocato non pochi problemi, per esempio l’attenzione di un altro giudice antiabortista, un altro di quelli che piacciono tanto alla destra bigotta, il quale incalza dicendo: “Infatti, neanche vent’anni fa, l’FDA avrebbe dovuto approvare questo terribile medicinale”. Siccome anche lui in fondo è una brava persona, aggiunge: “Abortire crea traumi terribili alle ragazzine, quindi bisogna smetterla”. Chi avrebbe mai detto che un giudice così attento alla psicologia delle giovani donne sia convinto che avere un figlio quando non gli si può assicurare una vita dignitosa sia meno lacerante che prendere la pillola del diavolo? No, dico: ha fatto bene a condividere con noi le motivazioni della sua posizione che, da giudice, dovrebbe essere assolutamente imparziale. Si vede che durante quelle lezioni universitarie, era a judo con il suo collega. Non mi viene in mente nessun altro motivo valido (o anche non valido).
Questo secondo genio, che ha un nome con tante zeta e qualche cappa, probabilmente di origine polacca (dove invece si va ad abortire che è un piacere…) è riuscito a fare una cosa mai fatta prima: è stato il primo a sospendere l’uso di una medicina approvato più di due decenni fa. Congratulazioni, signor giudice!
Tutto questo non significa che Rice e il suo amico di merende siano realmente contro l’aborto o che passino notti in bianco a pensare al futuro cupo di noi povere donne. È senza dubbio una strategia politica: se la loro nipotina sedicenne rimanesse incinta, la farebbero abortire senza se e senza ma (scusate: ho sempre voluto usare senza se e senza ma). Non solo: non c’entra neanche la pillola. L’obiettivo politico è di cavalcare l’onda del movimento pro-life americano, che qualche tempo fa ha trovato nella Corte Suprema tanti amici.
I due giudici hanno oltrepassato l’abolizione dell’uso della pillola e si sono appigliati al Comstock Act, anno domini 1873, che stipula il divieto di spedire qualsiasi articolo creato per “producing abortions” (si vede che allora si diceva così). Si sono attaccati al 1873 e alla produzione di aborti perché è ovvio che sia l’attrezzatura medica che gli ormoni non vengono fabbricati nei luoghi in cui si producono aborti farmacologici: tutto deve essere spedito. Ecco l’inghippo: è vietato inviarli! Lo diceva anche il signor Comstock (un uomo, tra l’altro: certe cose davvero non cambieranno mai) e malgrado il mondo si sia modernizzato, due giudici del Texas sono nostalgici dei bei tempi.
Purtroppo per loro, politicamente è molto difficile che l’aborto venga reso illegale negli Stati Uniti, Comstock o no. Molti repubblicani antiabortisti hanno pagato caro il loro appoggio al movimento pro-life. A parte, evidentemente, in Texas. Non solo, la maggior parte dei cittadini americani è pro-choice. Anche chi non lo è, lo approva in caso di pericolo per la vita della madre o del feto.
Leggevo l’altro giorno che cinque donne texane hanno fatto causa allo Stato che ha proibito loro di abortire, benché sapessero che il feto non sarebbe mai sopravvissuto: tre dei feti erano senza cervello, per esempio. Hanno deciso di andare in un altro Stato, perché in Texas, se qualcuno viene a sapere che una donna ha abortito, la può denunciare alla polizia. Chi fa la spia guadagna diecimila dollari dalle autorità; il medico che l’aiuta ad abortire, questo sempre in caso di pericolo di vita o di morte, della donna o del feto, viene cacciato dall’albo e messo in carcere.
Mi chiedo: ma se tutto questo avesse a che fare con quelle pilloline blu che fanno sognare a certi maschi di essere supereroi per due ore, saremmo davvero qui a far tutto questo casino?
Bisogna che qualcuno ricordi al Texas che siamo nel 2023. E che il futuro è donna.
In apertura la foto di Gayatri Malhotra/ unsplash