Molti motivi per desiderare di disconnettersi e prendersi una pausa estiva. Per non continuare, almeno per un po’, a mettersi nei mani nei capelli tra la guerra, le decisioni della Corte suprema su armi e aborto e l’emergenza climatica…
Siamo già a fine giugno. Spero che molti americani riescano a passare l’estate in un luogo remoto, senza Internet o televisione. Abbiamo tutti noi bisogno di staccarci dalle notizie sempre più allarmanti che ingoiamo ogni santo giorno. Le stragi nelle scuole e l’enorme problema delle armi che la Corte suprema ha appena deciso di non limitare mentre buttava alle ortiche anche la sentenza Roe vs Wade che ha finora garantito l’interruzione di gravidanza; i racconti che ascoltiamo durante le udienze davanti al Congresso su cosa è accaduto il sei gennaio e le responsabilità di Trump; la guerra in Ucraina e la difficoltà di rimanere oggettivi davanti a tanto dolore; il clima che sta creando spaventosi incendi, siccità, alluvioni. Insomma, c’è da mettersi le mani nei capelli. Noi, nel senso della mia famiglia, abbiamo pochi programmi per le ferie, tranne una settimana a fine agosto al mare.
Il centro di mio figlio Luca non chiude durante l’estate e non ho ancora capito se è una cosa buona o no. Per un verso, Luca, da bravo autistico, ama la sua routine, e poi, lo dico da mamma innamorata di lui, quando sta a casa tutto il giorno trovo difficile fare qualsiasi altra cosa. Ma vuole anche dire che le nostre vacanze sono legate ai suoi impegni, per cui io e mio marito facciamo a turno ad andare in campagna, una settimana per uno.
Emma ha finito la prima liceo e dice di voler stare a Cambridge tutta l’estate a lavorare al ristorante messicano dove già lavora da mesi, e giocare a pallavolo con le sue amiche. Libera di fare quello che vuole. È grande abbastanza.
Sofia, invece, che si è appena laureata, si trasferisce a Chicago tra qualche giorno. La mia vacanza sarà proprio accompagnare lei e tutti i suoi centomila bagagli a 1582.7 chilometri da qui.
Abbiamo noleggiato un camioncino, che riempiremo tra qualche giorno. Poi partiamo per la nostra avventura, un po’ come Thelma e Louise, ma con un finale meno tragico (mi scuso se ho spoilerato il film). La prima notte la passiamo a Rochester, nello stato di New York, dopo circa sei ore di viaggio. Lì, Sofia ha un’amica che spera di incontrare a cena. Io invece mi porterò il libro dei racconti di Bassani e me lo leggerò tranquillamente, spaparanzata sul letto grande di una stanza d’albergo fresca di aria condizionata.
La mattina dopo, partiremo presto per andare a Cleveland, nell’Ohio, che da Rochester dista circa quattro ore. Cleveland non so neanche dove sia: a nord di? A sud-ovest di? Non ne ho la più pallida idea. So che l’Ohio è uno degli swing States, che durante le elezioni presidenziali può oscillare tra il voto democratico o repubblicano, a differenza di altri Stati. Per esempio, il Massachusetts, dove abito io, è sempre stato democratico. Il fatto che l’Ohio non sia né carne né pesce mi irrita e mi fa pensare che una persona come Sofia, queer, avrebbe probabilmente dei problemi di discriminazione. Poi, per carità, magari scopro che Cleveland è una città strepitosa e che voglio andarci a vivere. Non so perché, ma ho la netta sensazione che lì scoprirò un’ennesima altra faccia dell’America.
Dopo Cleveland e tre ore di viaggio, arriveremo finalmente a Chicago, che è una di quelle (poche) città americane di cui sono curiosa. Sofia ha trovato un appartamento da condividere con due sue amiche, ha qualche colloquio di lavoro, l’entusiasmo dell’inizio di un nuovo capitolo della sua vita, quello in cui diventa veramente un’adulta. Sono molto emozionata per lei.
Chicago, dicevo. La chiamano la New York del Midwest, nel senso che è molto vivace, piena di artisti, musicisti, è viva e lotta insieme a noi. Famosa per i suoi club di jazz e di blues. Famosissima per i Blues Brothers e per i nazisti dell’Illinois. Ma qualche amico me l’ha anche descritta come LA città americana per eccellenza. Forse intende dire che è meno grunge del Village, meno anticonformista. È anche considerata una delle città più violente negli Stati Uniti e anche tra le più segregate. Forse in questo senso è più americana. Il giorno dopo, prendo un volo da Chicago, da sola, e torno a casa, dove spero anch’io di trovarmi un posticino tranquillo e silenzioso dove non pensare a niente se non a che aperitivo bere verso le sette di sera.
In apertura foto di Neal Kharawala/ unsplash