Diario americano: ‘Siam tre piccoli’, pensieri sul tempo della famiglia

In diarioCult, Weekend

C’è un tempo là fuori, ed uno – mentre l’altro porta cose nuove e non sempre gradite- qui dentro. Il tempo della famiglia ripete i propri riti, le abitudini, ricostituisce ogni volta, anche nel rivedersi se si sta lontani, la trama del proprio stare insieme e dell’essere in relazione

Come ogni anno dal 1996, mia mamma è venuta a celebrare con noi il compleanno di Luca. Durante questi anni ha assistito, tra le altre cose, alle vittorie di Bush, a quelle bellissime di Obama e allo sfacelo delle ultime.

Quest’anno Luca ne ha fatti 21. Compiere ventun anni in America è un passo importante, non solo perché finalmente si possono frequentare tutti i locali notturni e si possono comprare bevande alcoliche, ma anche perché dopo i ventuno non ci sono più scuse: si è adulti e basta.

Lui invece è rimasto come quando ne ha compiuti cinque, con la differenza che adesso quando si vuole sedere in braccio a mia madre, la schiaccia perché è il doppio di lei. Luca, autistico grave e prepotente portatore di un cromosoma in più, ama sua nonna più di qualsiasi altra persona al mondo. Ogni novembre, quando arriva e, stanca dal viaggio lunghissimo, sale le scale e bussa alla porta della camera di mio figlio, si sente già da fuori l’anticipazione dell’entusiasmo puro, senza filtri, che solo lui sa creare. Ogni novembre inizia esattamente allo stesso punto in cui era finita l’anno prima, con Luca che le chiede di cantargli la stessa canzone dei porcellini che gli canta dagli anni Novanta: “Siam tre piccoli”, la chiama lui, e lei sorride e gliela canta tipo sette miliardi di volte nelle due settimane che rimane qui.

Il tempo è un concetto estremamente complesso per Luca. Quando aveva 14 anni una terapista particolarmente paziente gli insegnò a rispondere alla domanda: “How old are you?”, e ancora adesso quando gli si chiede l’età risponde, fiero: “Fourteen!”. Così come quando mia madre si presenta esattamente un anno dopo, per lui non sono che passati due o tre minuti. Il tempo per lui è scandito da una rigida routine sempre uguale, che si snoda di ora in ora un po’ come se fosse una lunghissima giornata. Si sveglia sempre esattamente alla stessa ora, fa esattamente gli stessi gesti per prepararsi, il pulmino arriva esattamente alla stessa ora e a scuola fa esattamente le stesse cose. Poi torna a casa sempre alla stessa ora, richiede la stessa merenda (“Goldfish! Milk!”) e va nella sua camera, ascoltando sempre esattamente la stessa canzone. Poi arriva la terapista e con lei fa le stesse cose di sempre. Cena, torna in camera sua, si addormenta verso le 23 e poi riprende di nuovo da capo: sveglia, pulmino, scuola, merenda, terapia, cena, nanna.

E poi ogni tanto gli si dice che è il suo compleanno, e arriva la nonna, e si sveglia quella mattina e trova sul tavolo della cucina dei regali che odia aprire, forse perché a lui dei regali non interessa assolutamente niente e la sera gli tocca soffiare sulle candeline, sputacchiando sulla torta che non mangia. Ma non capisce perché ogni tanto ci viene in mente di fare tutte queste cose, perché per lui l’età, le celebrazioni, i regali, le candeline e i bigliettini firmati non significano assolutamente nulla. Devo ammettere che anche in questo lo invidio moltissimo: credo che, se non capisce il passare del tempo, non capisca neanche il fatto che ci sarà prima o poi una fine, che a noi terrorizza ma che lui non sa neanche esista. Non si pone nessun problema al mondo, Luca. Attraversa il suo tempo con la certezza che dopo un’attività arriverà la prossima e poi la prossima ancora per sempre.

Le due settimane all’anno passate con sua nonna diventano parte del quotidiano e quando lei parte è come se fosse uscita un attimo e poi fosse rientrata la sera. Ed è per questo che quando la rivede le chiede la stessa canzone di sempre, perché dall’anno prima il tempo non è passato. Niente è cambiato.

In fondo, pensavo, quando arriva, anche io e mia madre facciamo le stesse cose da ventun anni. L’ultima settimana passa alla ricerca delle cose che le sorelle o gli amici le chiedono di portare, che sono sempre le stesse: le matitine portamine per fare la Settimana Enigmistica, le aspirine, il deodorante Sure che non so perché piace tanto a lei e a mia zia, il tabacco per le sorelle, i cioccolatini con il burro di arachidi per i nipoti. E il biglietto d’auguri per mia zia Milena, che compie gli anni alla fine di novembre. Andiamo sempre nello stesso grande magazzino, Target, e passiamo ore a leggere i bigliettini fino a quando ne troviamo uno che, anche se in inglese, si capisca. Un anno ne avevamo trovato uno bellissimo che diceva: “Well behaved women rarely make history”, che Milena si è incorniciata. Da allora non siamo riuscite a trovarne uno altrettanto bello, e ogni anno diciamo la stessa cosa: “Certo che come quello di qualche anno fa…”. Ogni mattina mia mamma si alza prestissimo per preparare la colazione per Luca e il pranzo che si porta a scuola (ogni giorno lo stesso: ravioli di formaggio e spinaci conditi con il burro), e quando se ne vanno tutti, ci fumiamo finalmente una sigaretta in cucina (dicendo, ogni volta, che non si dovrebbe fumare in casa perché poi Dan se ne accorge). Poi facciamo due mestieri e ci prepariamo per uscire.

Andiamo sempre negli stessi posti: all’ipermercato che piace a lei (dove compra le aspirine i guanti di gomma per lavare i piatti per mio zio, quelli viola che durano tantissimo), o a Harvard square, dove dice sempre che è bellissima ed elegante, e che all’andata andiamo a piedi ma al ritorno prendiamo la metropolitana. Diciamo sempre che se non ci fosse il vento freddo, sarebbe una bellissima giornata e che fa più freddo qui che a Milano. A mezzogiorno mangiamo sempre gli avanzi della sera prima (perché non si spreca niente) e dopo pranzo ci sediamo sul divano: lei si addormenta e io lavoro a maglia. Ogni giorno alle tre meno un quarto arriva Emma, alle tre emmezza arriva Luca e alle quattro arriva la terapista. E ogni pomeriggio noi facciamo il bucato e poi cominciamo a preparare per la cena. Poi ogni sera verso le sei arriva Dan, si mangia e lei e Dan litigano per chi fa la cucina (“La faccio io che mi aiuta a digerire!”). Ogni sera beviamo un bicchierino di whiskey e giochiamo a Machiavelli. Ogni volta che giochiamo a Machiavelli diciamo: “Mancano i picche”, oppure: “Non ci sono figure…”. E poi verso le dieci mia mamma dice: “Sono stanca, vado a letto. Grazie di tutto. Che bello stare qui con voi. Siete una famiglia bellissima, siete un ottimo esempio di vita”.

Poi, dopo esattamente due settimane, torna a Milano. E ogni volta ci sembra che il tempo sia passato talmente in fretta che non ce siamo neanche accorte. Come Luca, anche noi per quelle due settimane siamo inconsapevoli delle ore che passano, ogni azione è seguita da un’altra azione uguale a quella di ieri e a quella di domani.

Poi arriva e passa la Festa del Ringraziamento, poi il Natale, la primavera e in un lampo ritorna novembre, e si ricomincia da dove avevamo lasciato l’anno prima: da “Siam tre piccoli”.

Immagine di copertina di Uroš Jovičić

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