Ci si poteva ancora abbracciare tre settimane fa in Italia. Ora non più e da lontano, da Boston dove ancora tutto è normale, si vede l’onda alzarsi….
Quando ero piccola, ero affascinata dai racconti che mi faceva mia nonna Vera sulla Milano durante la guerra. Mi raccontava di strade deserte, di gente impaurita, di negozi mezzi vuoti. Mi raccontava delle famiglie che si sedevano accanto alla radio, la sera, per ascoltare le ultime notizie, sempre più drammatiche, sempre più allarmanti.
Così mi immagino la mia Milano in questi giorni. L’ho lasciata tre settimane fa, quando di coronavirus si parlava, ma non era ancora scoppiato niente, quando si sentiva l’imminenza di qualcosa di grosso che stava per accadere, ma ci si poteva ancora abbracciare, incontrare con gli amici.
“Non sai come sei stata fortunata”, mi ricorda Chiara, dell’ufficio stampa della Sonzogno, la casa editrice con cui è uscito il mio ultimo libro (qui la videopresentazione, ndr) perché adesso presentazioni, interviste e cose del genere non se ne fanno più, e i libri rimangono soli, sugli scaffali delle librerie chiuse per coronavirus.
Un altro mondo rispetto a tre settimane fa. Un’altra città. Sento mia mamma tutti i giorni al telefono e come faceva mia nonna quando ero piccola, mi racconta della paura, della solitudine, del disagio che prova sia lei che tutti quelli attorno a lei. “Mi è venuto a trovare il Giorgio, e invece di farlo salire, sono scesa e abbiamo chiacchierato sul marciapiede, a due metri di distanza. Così stiamo…”. Il paradigma dell’affetto è cambiato in tre settimane: adesso se si vuole bene ad una persona, invece di abbracciarla, le si sta lontano. Sembra un controsenso, eppure, come dice mia mamma, così stiamo.
Leggo su Facebook di molte iniziative per stare comunque insieme, per mantenere un legame con il resto del mondo malgrado questo virus così odioso: c’è chi offre servizi agli altri, c’è chi propone lezioni di uncinetto, della storia delle leggi razziali in Italia e in Germania, chi tiene un diario quotidiano su quello che sta succedendo. Sembra che venga fuori, con l’isolamento e la solitudine, una creatività prima un po’ forse lasciata da parte, messa in secondo piano rispetto ai mille impegni quotidiani che adesso sono come spariti.
Io, che abito da questa parte dell’oceano, cerco di immaginare la mia città, la vita di tutti e quasi non ci riesco. Mi sembrano racconti post apocalittici di un film di serie B. L’idea di non poter prendere un aereo e abbracciare mia mamma mi ferisce come il morso di un cane. Mi spaventa il fatto che un virus, una cosa così piccolina da doverla vedere sotto un microscopio possa separarmi così violentemente dalla mia famiglia, dalla mia Milano.
Ascoltare mia mamma, leggere quello che sta succedendo su Facebook mi serve anche per prepararmi a quello che inevitabilmente succederà anche qui. È come guardare da lontano un’onda enorme che sta per colpirci. Anche qui a Boston molte persone lavorano da casa, molte università sono chiuse, le scuole pubbliche anche, i supermercati sono stati presi d’assalto. Eppure, non c’è ancora, come sembra esserci a Milano, lo stesso livello di attenzione alla distanza tra le persone, l’obbligo di isolamento, la richiesta di stare a casa. Qui i casi sono ancora relativamente pochi, le strade e le piazze non sono ancora vuote, i negozi sono tutti aperti, tutto funziona esattamente come prima.
Io continuo a dire ai miei figli di fare attenzione, di lavarsi le mani, di non stare troppo a contatto con gli amici, ma loro mi guardano come se fossi la solita paranoica. Dico loro di quello che sta succedendo a Milano, ma per loro è una realtà troppo lontana, e pensano che qui non succederà mai. Mi spaventa questo atteggiamento laissez faire e spero che cambi in fretta, anche se vorrei che avessero ragione loro, quando pensano che in fondo stiamo tutti un po’ esagerando e che un abbraccio non ha mai ammazzato nessuno.
Questa volta, temo, ho ragione io.