Dopo, tutto è cambiato. Quel giorno, l’11 settembre, c’era un bellissimo cielo azzurro sopra New York ed è scoppiata una guerra
“È scoppiata la guerra, Marina”.
Questo è quello che mi ha detto mia madre, quando sono riuscita finalmente a trovare un telefono pubblico per chiamarla e dirle che noi stavamo tutti bene, anche se in realtà non sapevo ancora che era vero.
Ci siamo svegliati presto, quel martedì mattina. Il cielo era blu, senza neanche una nuvola. L’aria fresca, senza umidità preannunciava un autunno bellissimo.
Il pulmino di Luca sarebbe arrivato a casa nostra a Brooklyn verso le sette e mezza; io avrei portato Sofia al nido e poi sarei andata a Brooklyn Heights per un incontro con il distretto scolastico e l’avvocatessa di Luca per definire il programma individuale che la sua scuola avrebbe dovuto seguire.
Quando alle otto meno dieci il pulmino non era ancora arrivato, Dan ha deciso di portare lui a scuola Luca: avrebbero preso la metropolitana A a Fulton street e sarebbero arrivati dopo una ventina di minuti a Union square, a Manhattan. Dan lo avrebbe accompagnato e poi si sarebbe incamminato verso il suo ufficio.
Alle otto e dieci casa nostra era vuota.
Ricordo di aver portato Sofia in macchina perché poi dovevo andare all’appuntamento, e che nel vedere lo skyline di Manhattan mi aveva detto: “citylights!”. Aveva due anni e ogni volta che vedeva quella bocca spalancata piena di denti di cemento diceva citylights. Le avevo promesso che una di queste sere saremmo andate a fare una bella passeggiata e avremmo visto Manhattan tutta illuminata.
L’ho lasciata al nido e ho affrontato con rassegnazione il traffico di Flatbush Avenue, che termina al ponte di Manhattan. Brooklyn Heights è proprio di fronte alle citylights, sembra una finestra enorme sulla parte più a sud di Manhattan, dove troneggiavano le Torri Gemelle.
Sono arrivata nell’ufficio del distretto scolastico un po’ in anticipo e ho preso posto attorno al tavolo dove ci saremmo incontrati tutti. Alle nove e qualcosa, squilla il telefono. Era Dan: “Marina! Ho appena visto un aereo entrare in una delle torri gemelle!”. Io, concentrata com’ero, gli ho risposto che questo non era proprio il momento di chiamarmi. L’avvocatessa sarebbe arrivata a momenti e avremmo cominciato la riunione.
È stata l’ultima volta che ho potuto parlare con Dan, quel giorno.
Mentre io affrontavo il traffico di Brooklyn, Dan aveva portato Luca a scuola e si stava incamminando verso il suo ufficio. Dietro di lui, camminava una signora, sicuramente anche lei per andare in ufficio. Ad un certo punto un aereo ha volato a quota bassissima proprio sopra la loro testa e poi ha girato a sinistra. La signora si è girata verso Dan e ha detto: “Non andrà mica alle Torri Gemelle…”. Dopo qualche minuto, la città tutta si è messa ad urlare, mentre il fumo nero della prima torre offuscava il cielo azzurro. Il secondo aereo, che nessuno ovviamente si aspettava, ha squarciato l’altra torre davanti agli occhi terrorizzati di Dan e di decine di persone attorno a lui.
Quando poco dopo sono uscita dal palazzo del distretto, il cielo Brooklyn Heights era pieno di fogli di carta bianchi che volavano e sembravano migliaia di gabbiani. Il fumo puzzava, la gente correva impazzita per la strada, urlando.
I telefoni pubblici avevano file lunghissime di persone che aspettavano il loro turno per assicurarsi che i loro cari stessero bene. Quando è finalmente arrivato il mio turno, ho chiamato mia madre, che allora lavorava per il tg3 ed era in ufficio.
“Hanno appena bombardato il Pentagono. È scoppiata la guerra, Marina”.
Il primo istinto è stato andare a prendere Sofia all’asilo e abbracciarla. Flatbush avenue era diventata il caos assoluto: persone che guidavano contromano, i semafori che non erano più rispettati, nemmeno le precedenze. Le urla delle persone, l’odore acre e i milioni di fogli di carta rendevano la scena surreale, apocalittica.
Sono arrivata al nido di Sofia e altre mamme erano già lì. Una mi ha detto che suo marito, che faceva parte del pool architettonico delle torri, era corso lì a dare una mano. Qualche giorno dopo le avrei portato una teglia di lasagne e un abbraccio di condoglianze.
Siamo arrivate a casa che la seconda torre era crollata.
Ero terrorizzata per Dan e Luca: i telefoni non funzionavano, i ponti per arrivare a Manhattan bloccati, le notizie sulla CNN parlavano di autobombe sparse per la città che sembravano vere, come erano veri i rombi dei motori degli aerei caccia che circolavano all’impazzita tutta la città.
Quel terrore me lo sono portato dentro per anni, ed è un trauma con cui ho imparato a convivere.
Dan e Luca sono arrivati a casa verso le otto di sera. La polizia aveva permesso a chi viveva a Brooklyn di tornare a casa a piedi. Dan aveva comprato una maglietta con la scritta I love NYC da mettere davanti al naso e alla bocca di Luca, che era sul passeggino, perché la polvere era palpabile e molte persone erano coperte di una farina bianca. Dan racconta che quel cammino lento, silenzioso, pieno di morte e di orrore è stato come camminare di fianco all’inferno.
Quella sera, quando eravamo finalmente tutti a casa insieme, mi è venuto un desidero strano: sono uscita di casa, affrontando il fumo, e ho aperto la porta a una chiesa dietro casa mia. Quando sono entrata, una sessantina di persone nere si sono girate verso di me. Una ha detto: “Grazie per essere venuta, Vieni con noi a condividere questo momento orrendo”. Mi sono seduta di fianco a lei, e lei mi teneva la mano stretta. Il prete ha annunciato: questa sera non sarebbe stato lui a parlare, ma noi. Avremmo raccontato della giornata. Uno a uno, con grande rispetto e sobrietà, i credenti si sono alzati e hanno raccontato. Una donna che lavorava nella Torre numero 1, aveva aiutato un collega disabile a scendere le scale; un’altra nella Torre numero 2 continuava a ringraziare i pompieri, che invece di scendere e scappare dall’inferno, andavano ad affrontarlo di persona.
Dopo gli innumerevoli racconti, ci siamo alzati e ci siamo tutti abbracciati, piangendo disperati.
Io lavoravo per la scuola Berlitz, a cinquanta metri dalle Torri Gemelle. Il 12 settembre ho chiamato la mia capa al cellulare per assicurarmi che tutti fossero sani e salvi. “La scuola non c’è più, è stata distrutta dalle macerie. Ma fortunatamente siamo riusciti tutti a scappare”.
È iniziata così l’era del post 11 settembre, fatta di morte, di guerre, di assoluta mancanza di privacy, di paura di andare in metropolitana, di paura di volare, di incredibile e disastrosa vulnerabilità.
Alla fine, io, Dan e i ragazzi siamo stati molto fortunati.
In apertura: foto Redd/unsplash