Da dove è arrivato quell’odio, così forte da massacrare un uomo fino ad ammazzarlo? Come può aver contagiato non una ma ben cinque persone? Perché la polizia si sente in guerra con la popolazione che dovrebbe difendere e tutelare? Le domande dopo l’omicidio di Tyre Nichols a Menphis, afroamericano lui, afroamericani gli agenti che lo hanno ucciso
Il mese di gennaio sembra portare violenza e morte negli Stati Uniti. Il 6 gennaio 2021, invece di appendere la calza per la Befana, i migliaia di scugnizzi armati di Donald Trump decidono di occupare il Campidoglio: cinque morti e più di 138 feriti e il Paese sotto shock, l’ex Presidente indagato. Un macello.
Questo sette gennaio, invece, Tyre Nichols, un uomo di ventotto anni di Memphis, padre di un bimbo di 4 anni, viene fermato dalla polizia per un’infrazione stradale molto poco credibile. Era a duecento metri da casa sua. Dopo una discussione, i poliziotti che lo hanno fermato lo buttano fuori dalla macchina e cominciano a picchiarlo. Il signor Nichols scappa, 5 poliziotti lo rincorrono e lo massacrano di botte. Tyre morirà qualche giorno dopo, in ospedale.
Tutte persone afroamericane, sia la vittima che i carnefici. Dopo essere stati licenziati, i cinque poliziotti vengono accusati dei seguenti reati: omicidio di secondo grado (dai 15 ai 30 anni di carcere), aggressione aggravata (dagli 8 ai 30 anni di carcere), aggressione di gruppo (dagli 8 ai 30 anni), rapimento aggravato (8-30 anni), cattiva condotta sul lavoro e oppressione da parte di un poliziotto (entrambi da un anno a 6 di carcere).
Per paura che l’omicidio del signor Nichols creasse gli stessi disordini per l’omicidio di George Floyd, prima di annunciare la terribile notizia, i cinque poliziotti vengono immediatamente licenziati e arrestati. In effetti, ha funzionato: grazie a questa decisione, grazie anche alle suppliche dei genitori della vittima di mantenere la calma, le manifestazioni in gran parte degli Stati Uniti non sono state violente.
Poi è venuto fuori il famoso video, anch’esso mostrato dopo gli arresti dei poliziotti. Dura quasi un’ora, ed è stato catturato dalle telecamere che i poliziotti americani portano sempre con sé e da quelle di sicurezza che sono nelle strade. Io non sono riuscita a vederlo, e ancora adesso non sono convinta che mostrare la morte violenta al telegiornale abbia molto senso. Mio marito, invece, è dell’opinione che sì, queste cose si devono assolutamente mostrare, perché hanno un effetto molto più profondo e la gente deve vedere come la polizia, quella malata e violenta, tratta le persone fermate. Ho saputo che si sente la voce di Tyre gridare Mamma! Mamma!, si sentono i calci dei poliziotti sul corpo inerme, si sentono insulti, cattiverie, parole razziste. In un’intervista l’avvocato della famiglia Nichols Antonio Romanucci dichiara: “È stato trattato come una pentolaccia umana. I poliziotti non sono stati solo violenti: sono stati barbarici”. Il presidente Joe Biden, uno dei più amati dalla comunità nera, afferma sgomento: “È un ennesimo e doloroso segnale del terrore, dei traumi e dello sfinimento che gli americani neri o latini provano ogni giorno”.
Io e il mio amico Byrne abbiamo cenato insieme qualche sera dopo questa terribile esecuzione. “Mi chiedo come abbiano fatto cinque poliziotti neri, ad accanirsi così violentemente su un ragazzo apparentemente innocuo. Ho sempre pensato che ci fosse un’intesa non detta di protezione reciproca in una delle comunità più numerosa e abbandonata di questo Paese”, diceva tra un sorso di rosso e l’altro. “Non credo che c’entri il colore della pelle. La cultura poliziesca è violenta, sproporzionatamente violenta rispetto alle persone con cui hanno a che fare. Sono violenti, addestrati alla violenza, ma soprattutto armati”, rispondo.
Credo che entrambi, io e Byrne, abbiamo ragione, ma quello che non mi spiego è da dove sia arrivato quell’odio tale da massacrare Tyre fino ad ammazzarlo. Quale forza terribile e maligna può portare non uno, ma cinque persone ad agire così.
Alex Vitale, un mio amico e professore di Sociologia a Brooklyn College, dove mi sono laureata, ha scritto un libro, The End Of Policing (2017), che ha venduto più di centomila copie ed è tradotto in sei lingue, in cui analizza e propone una società senza polizia, ma con persone abilitate a gestire le miriadi di situazioni che possono capitare. “I poliziotti credono di essere guerrieri in guerra con la popolazione, invece che guardiani della sicurezza pubblica. Hanno accesso a carri armati e ad armi militari; molti di loro sono veterani militari, e all’interno della polizia sono stati create delle unità violente, come SWAT (Special Weapons and Tactics). Inoltre, credono che alcune comunità siano turbolente, pericolose, violente. In poche parole: criminali. È con questa mentalità che non esitano ad usare la forza da subito”. Viviamo in un Paese militarizzato, praticamente.
Malgrado l’indignazione della brutalità della polizia particolarmente nei confronti di minoranze, ma succederà di nuovo perché poco si sta facendo per fare dei cambiamenti radicali all’interno della polizia, violenta e protetta da un’omertà che neanche Cutolo.
In apertura foto di Andrew Valdivia /unsplash