Una telefonata dopo 20 anni di silenzio. Con chi riuscire a parlare di Black lives Matter, delle implicazioni profonde nella cultura americana di secoli di schiavitù e razzismo istituzionale? Non con gli amici italiani, ma con un’amica particolare, Silvia Baraldini, militante radicale e antirazzista al centro di un famoso caso giudiziario tra Stati Uniti e Italia, conosciuta quando in un penitenziario americano scontava un’abnorme condanna a 43 anni di reclusione
Ho conosciuto Silvia Baraldini tantissimi anni fa, forse nel 1994, quando io abitavo ancora nel New Jersey e lei nel carcere federale di Danbury, nello Stato del Connecticut. Da allora fino alla nascita di Sofia, nel 1999, andavo a trovarla almeno una volta al mese e, sciolto il ghiaccio iniziale tipico di chi non si conosce, in questi anni abbiamo maturato una bellissima amicizia.
Ricordo quando nel 1997, dopo che lei aveva partecipato a tutte le fasi della mia gravidanza, scoprimmo che Luca aveva delle disabilità. Fu una delle poche persone, al di fuori della famiglia, che mi chiamava regolarmente per farmi sfogare la rabbia e il dolore che si accumulava a palate dentro di me.
Ricordo quando andavo a trovarla con Luca. Le altre donne del carcere lo portavano a giocare nell’area designata i bimbi, così che io e Silvia potevamo avere un po’ di pace e parlare.
Ricordo quando aveva pagato una donna in carcere con lei per fare un pupazzo di leone all’uncinetto per Luca, che adesso troneggia nella casa nuova di Sofia, la quale lo mostra raccontando con fierezza tutte le vicende assurde dell’amica della mamma, che si chiama Silvia Baraldini e che è stata ingiustamente incarcerata con una sentenza di 43 anni di reclusione.
Insomma, i ricordi sono infiniti.
Una cosa avevamo (e abbiamo tuttora) in comune: siamo italiane in America e americane in Italia. C’è poco da fare: quando si nasce in un Paese e da giovani lo si lascia per andare a vivere in un altro posto, succede così a tutti. Si cominciano a vedere i difetti e i pregi dei due paesi in modo molto chiaro e oggettivo, e la cosa difficile è trovare persone con cui condividere queste osservazioni.
Dopo vent’anni di silenzio (Silvia è stata poi estradata in Italia, dove adesso è finalmente libera), l’altro giorno, con grande emozione, l’ho chiamata. Volevo sentirla da tempo, ma quando qualcosa di molto grosso succede negli Stati Uniti, come le proteste antirazziste di questi giorni dopo l’uccisione a Minneapolis di George Floyd da parte di un agente di polizia , la prima persona che ho pensato di chiamare è stata proprio lei.
Pensavo a un iniziale impaccio: dopo tutto erano passati molti anni. Ma invece no. Silvia è una persona schietta, e si scoccia a sentire i “Mi sei mancata”, “Che bello sentirci”, e cose varie. Ha subito voluto vedere Luca, che adesso ha 23 anni. “Ha la stessa faccia di quando era piccolo!” ha detto con un sorriso.
Ma quasi subito ci siamo messe a parlare dei fatti che stanno accadendo nelle strade americane. Avevo, proprio quel pomeriggio, iniziato una discussione su Facebook a proposito del film Via col Vento, e molti italiani non capivano perché un bel film, tra l’altro molto vecchio, dovesse subire una tale persecuzione proprio ora. “Ho la sensazione”, dicevo a Silvia, “che in Italia ci sia ancora uno sguardo molto eurocentrato su questo genere di cose. Capisco che la storia italiana e europea non ha vissuto 400 anni di schiavitù prima e segregazione razziale poi (ma il colonialismo sì, ndr) ma insomma, almeno un minimo di solidarietà nei confronti del popolo afro americano, considerato che in tanti usano lo slogan Black Lives Matter!”, dicevo frustrata.
Ovviamente mi dava ragione, e mi raccontava della sua difficoltà, a volte, a parlare di questo genere di cose con i suoi amici italiani. “Anche la questione delle statue”, mi diceva animatamente. “Sono dei simboli razzisti, sono state costruite per ricordare al Sud della guerra tra Nord e Sud, lottata per liberare gli schiavi. Il Sud ha perso, ma ritiene ancora importante mostrare i vari generali razzisti del tempo. In nome della storia. Come se gli americani senza la statua si dimenticassero…”. Sarebbe come avere una statua di Hitler a Berlino, dicevamo: è davvero necessario avere una statua di Hitler per ricordarci di quello che ha fatto? Non mi sembra proprio.
Mentre parlavamo, mi riaffiorava forte un pensiero: sono discorsi che riesco a fare solo con lei, solo cioè con una persona estremamente intelligente e capace di vedere la realtà americana con una cognizione di causa rara da trovare. Allo stesso modo, sia io che lei (e forse lei molto meglio di me, visto che ci abita), vediamo l’Italia in modo più oggettivo, più completo, e conosciamo la cultura americana in modo profondo e intimo.
Abbiamo poi parlato di altro: i suoi viaggi e il suo lavoro, i miei libri e i miei ragazzi. Ci siamo ripromesse di sentirci presto e di vederci appena arrivo in Italia. Come molti anni fa, quando navigavo nel buio con Luca, Silvia mi ha fatto sentire meno sola e anche per questo le voglio bene.