Cosa sta succedendo nei campus americani? E perché la protesta degli studenti contro la guerra a Gaza spaventa così tanto? Tra l’enfasi dei media, un presidente in difficoltà e la polizia in assetto di guerra, una visita al Mit di Boston racconta una diversa storia
È sempre la solita storia: gli studenti alzano la testa e vengono attaccati brutalmente dalle forze dell’ordine vestite come se andassero a combattere in Afghanistan. “Ce lo chiedono gli amministratori degli atenei”, rispondono. Ma se è vero che accampamenti, slogan e bandiere palestinesi possono intimidire alcuni studenti non partecipanti alle manifestazioni, è anche sacrosanto il diritto di protestare.
Il fatto è che decine di migliaia di studenti, per lo più abbienti (la Columbia University di New York costa circa centomila dollari l’anno), fanno molta paura in una società già profondamente divisa in due fazioni, quella repubblicana e quella democratica, e dunque debole. Alcune proteste studentesche del secolo scorso sono state spunti per rivoluzioni globali: l’antirazzismo, il femminismo, il pacifismo e le conseguenti leggi abrogate per cambiare la società sono ancora presenti adesso, malgrado le forze di destra cerchino di disfarsi di alcuni diritti fondamentali, quali l’aborto. Sono vive a tutti le immagini di retate poliziesche che hanno fatto anche vittime tra chi protestava. La cugina di mio marito Dan molto legata a noi tutti, Sharon Krebs, nel 1968 si presentò nuda e con la testa di un maiale al forno su un grosso piatto da portata ad una convention democratica come protesta contro la guerra in Vietnam prima di essere arrestata in quanto componente dei Weather Underground. Conobbi una volta una persona che mi disse di essere cresciuta con il poster di Sharon nuda appeso in camera sua. Per dire che in fondo gli studenti sono una specie di cartina tornasole della società.
Io e Dan abitiamo a Cambridge, nel Massachusetts, esattamente a Central Square, piazza che divide Harvard dal MIT e la settimana scorsa siamo andati a vedere la situazione. Il campus di Harvard è chiuso e ci può entrare soltanto chi ha il badge, ma il MIT è aperto, così che i cittadini interessati possano partecipare alla protesta. Malgrado le notizie che mostrano un movimento antagonista e razzista, violento e irriverente, il clima ci è parso tranquillo, le bandiere palestinesi svolazzavano indisturbate tra le tende, davanti a cui abbiamo letto cartelloni con avvisi di dibattiti e corsi introduttivi di politica e storia mediorientali. Anche da lontano, ci è stato chiaro fin dall’inizio che più che una rivolta antisemita e aggressiva, sembrava un accampamento estivo di amici. C’erano protestanti ebrei, musulmani, e di altri credo e provenienza vicini di canadese che chiacchieravano tranquillamente tra di loro, un gruppo pro-Israele con la loro, di bandiera svolazzante, erano dall’altra parte della strada, altrettanto tranquilli. Oserei dire che abbiamo assistito a un esempio di civiltà e di inclusione ormai quasi raro. Un ottimo esempio.
I mass media stanno strumentalizzando questo movimento delicato dando molta enfasi agli incidenti di antisemitismo sicuramente avvenuti, benché siano molti gli studenti ebrei che partecipano attivamente alle manifestazioni, ma i leader della rivolta dichiarano di non sentirsi rappresentati da chi grida odio razzista. Abbiamo ascoltato Zeno, un capotesta della protesta al MIT, studente dottorando e particolarmente eloquente e preparato che afferma di aver imparato più cultura ebraica in queste settimane che in tutta la sua vita e che chiarisce che il movimento non è antisemita. “Semmai, siamo antisionisti, che è diverso”. Aggiunge di avere il sacrosanto diritto di protestare, visto che l’amministrazione del suo ateneo collabora con lo Stato di Israele. “Non vogliamo essere complici di una guerra atroce, che ha già ammazzato migliaia di bambini e persone innocenti. Not in our name”. Lo stesso concetto di Zeno, che ha deciso di non cambiare il suo cognome malgrado possibili ripercussioni personali da rappresentanti trumpiani, loro sì violenti. I tipi di persone che hanno occupato il Campidoglio, per dire. Temono anche che la loro carriera possa essere ostacolata dal loro impegno politico.
I rettori chiamano intanto la polizia per far smantellare le tendopoli al centro di molti campus, in quanto disturbano l’andamento scolastico e mettono in soggezione alcuni studenti che non partecipano all’occupazione. Minacciano di cacciare dalle università i contestatori, come se tutto questo servisse davvero. Il loro problema, degli amministratori, dico, si chiama Costituzione tanto citata per quanto riguarda il diritto di possedere armi senza nessun paletto, ma che invece viene a dir poco limitato quando si parla di diritto di protestare. D’altronde, la protesta deve dare un po’ di fastidio, altrimenti non serve a niente. La polizia americana e i suoi modi patetici di farsi temere, si presenta vestita come se stesse partendo per l’Afghanistan e arresta in massa gli studenti, spesso manganellandoli e chi becca, becca.
Dalla Casa Bianca, Biden trema. Partendo già dal presupposto che un presidente ultraottantenne non sia particolarmente amato tra gli under 25, che a novembre voteranno, gli appartenenti al movimento studentesco potrebbero essere un problema serio per lui. Ha recentemente annunciato che prima di mandare altre armi a Netanyahu, ci deve pensare un attimo, ma forse è già troppo tardi. Rafah è solo all’inizio della sua fine. Verrà rasa al suolo come la città di Gaza, i suoi cittadini trucidati, le sue infrastrutture completamente distrutte. L’Egitto, il cui confine è proprio lì, ha chiuso l’accesso a chi cerca di fuggire da miseria e da morte. In un’intervista a CNN, l’altra sera Biden ha detto di capire il sacrosanto diritto degli studenti di protestare, ma non quello di violare le leggi, cioè essere violenti e violare la proprietà privata.
Insomma, gli studenti se ne devono stare al posto loro, in poche parole. Se non reagiscono sono dei pappamolle attaccati ai telefonini tutto il giorno, e se reagiscono danno molto fastidio. Malgrado la sua storia di proteste, questi Stati Uniti hanno ancora tanto da imparare, se vogliono continuare ad essere i paladini della democrazia.