Un viaggio a sud per capire una parte fondamentale della storia americana: la schiavitù. E per scoprire i segni contraddittori dell’uso della memoria: da un lato il vagheggiamento di un’epoca d’oro del Sud, dall’altra la costruzione in Alabama di un memoriale sul linciaggio e sulla segregazione dei neri. Un monito per l’oggi
Quando proposi a mio marito di fare un viaggio nel Sud degli Stati Uniti in macchina io e lui da soli, mi ha guardato come se proponessi un ménage a tre per vedere se ci piace. In effetti, per noi due mollare baracca e burattini è estremamente complicato, ma mi è bastato il suo sguardo per sentirmi sfidata. Insomma, qualche mese dopo eravamo all’aeroporto, da soli, e stavamo per imbarcarci su un aereo che ci avrebbe portato a New Orleans. Lì, avremmo noleggiato una macchina e per i dieci giorni seguenti avremmo gironzolato per il profondo sud, alla ricerca di una vita fuori dalla nostra comfort zone liberale e borghese.
Non sapevo esattamente cosa aspettarmi da questo viaggio. Del Sud sapevo poco: è un territorio enorme, molto più povero rispetto al Nord e alle coste, con ancora un sapore di sconfitta per via della guerra civile, combattuta per liberare gli schiavi. Mi era stato detto che nel Sud le persone sono più religiose, più legate a una tradizione piuttosto conservatrice per quanto riguarda i diritti delle donne, o degli omosessuali e che di solito vince il partito repubblicano. Tutte nozioni superficiali, insomma, e sicuramente appiattite da generalizzazioni snob fatte qui nel Nord. Infatti, siamo arrivati a New Orleans e c’erano più bandiere arcobaleno che nel Village di New York, più cocktails che in un film degli anni cinquanta e più musica che su Spotify.
Appena lasciata la città, però, la sensazione è stata quella di aver attraversato un confine. Il primo segno di diversità l’ho trovato nelle statue dei parchi: mentre qui nel Nord gli eroi sono i generali della guerra d’Indipendenza (da Hamilton in poi, diciamo), nel Sud sono i generali della Confederazione, quelli che durante la guerra civile combattevano per mantenere salda l’economia agricola di zucchero, tabacco e altro fondata sul lavoro degli schiavi. Ho notato anche molto quartieri trasandati, con palazzi ormai decrepiti, ma che ancora ricordano l’opulenza di un tempo.
Siamo andati a visitare una piantagione a un’oretta da New Orleans. È un po’ diversa dalle altre, che mostrano la vita delle famiglie bianche nelle loro case enormi, perfettamente ordinate e i giardini meravigliosi; in questa, aperta al pubblico da poco, si segue la vita di alcuni dei bambini neri che vi abitavano e che da anziani, prima di morire, hanno raccontato la vita loro e quella dei loro genitori. Alla Whitney Plantation, proprietà di una famiglia tedesca, c’erano centinaia di schiavi, donne, uomini e bambini, che per decenni lavorarono nei campi di canne da zucchero. Sembrava di sentire ancora l’odore acre di sudore e di disperazione, altro che Via Col Vento. Ho capito, seguendo attonita le spiegazioni date dalla guida, che il Sud non ha ancora digerito la sconfitta della guerra, perché dal momento in cui gli schiavi sono stati liberati, la grandiosità, l’eleganza e la ricchezza di tutta quella zona cominciarono a crollare come castelli di carta e vennero rimpiazzati da un odio senza precedenti. Quando furono liberati, gli schiavi, che erano stati tenuti nella più assoluta ignoranza e non possedevano nulla se non i vestiti che avevano indosso, non avevano la più pallida idea di cosa fare, di dove andare: il governo non aveva pensato a come aiutare questa enorme massa di persone dolorante e afflitta a diventare parte della società. Non solo non avevano diritti, ma non avevano identità, nessuno li avrebbe pagati per lavorare, nessuno avrebbe affittato loro una casa, perché fino ad allora non erano neanche considerati essere umani. Non avevano assolutamente niente.
La fine della schiavitù marca l’inizio di un’era atroce per la popolazione nera, altrettanto violenta e complessa, di cui si parlava troppo poco. Poi, qualche mese fa, a Montgomery, in Alabama, è stato aperto il primo memoriale sul linciaggio e la segregazione razziale, che io e Dan abbiamo deciso di visitare. Siamo entrati in un parco molto bello, e siamo stati accolti da una statua di metallo che mostra sei persone in cerchio incatenate al collo, tra cui una donna con in braccio un bambino. Sembra una statua che urla. Da lontano si intravede un enorme spazio coperto, e dal soffitto centinaia e centinaia di parallelepipedi di metallo un po’ arrugginito sono appesi al soffitto, immagine simile ai corpi trucidati appesi agli alberi. Ognuno ha una lista di nomi delle persone linciate in ogni contea di ogni Stato. Cosa significa esattamente linciare una persona? Non soltanto appenderla ad un albero come trofeo. Significa aggredirla e picchiarla a sangue da parte di gruppi di persone pieni di disprezzo. Significa scaraventare sul corpo di una persona decenni di puro odio. È agghiacciante camminare tra questi parallelepipedi, nel silenzio e nell’afa dell’Alabama, leggere tutti i nomi, tutti gli Stati che hanno usato questo metodo di terrorismo per due secoli. Agghiacciante leggere i motivi per cui alcuni di loro sono stati trucidati: per aver guardato una donna bianca, per non aver risposto “Sir” a una domanda fatta da un bianco, per non aver subìto le botte di un bianco durante una zuffa. Così, morti per niente. Bambini, uomini e donne che a volte non avevano neanche un nome.
Quando siamo riusciti a parlare, davanti a tutto questo orrore, io e Dan con una certa difficoltà siamo riusciti a trovare un lato positivo di questo capitolo di storia americana: forse il Sud sta a poco a poco prendendo delle responsabilità, si sta educando al proprio passato, sta mostrando a tutti cosa è stato fatto senza tra l’altro nessun vittimismo, ma usando questa era buia come esempio per il futuro. Sta forse cominciando a fare i conti con un passato quasi impossibile da immaginare. In un periodo deprimente come quello di Trump, questi sono segnali importanti, che forse serviranno a cambiare qualcosa.
Foto Marina Viola