Per la prima volta va in scena alla Scala Die Fledermaus di Johann Strauss figlio, con l’ottima direzione di Cornelius Meister e lo spettacolo deludente di Cornelius Obonya
Freud ha quasi diciotto anni quando Die Fledermaus va in scena a Vienna, nell’aprile del 1874. Schnitzler ne ha quasi dodici, così come Klimt. Il canto della finis Austriae non è ancora iniziato, ma non manca molto perché sulla Ringstrasse, appena costruita al posto delle vecchie mura della città, cali quella malinconia tutta asburgica che sa far piangere sempre, ma da un occhio soltanto. Qualcosa di struggente si muove già in questa vivace operetta di Johann Strauss figlio: la più importante, forse la più bella mai scritta, in scena ora alla Scala per la prima volta, fino all’11 febbraio.
Bastano le prime tre note per essere travolti dal brio, dalla sinuosità, un po’ anche dall’affanno cromatico della partitura, che si espande da questa cellula iniziale per creare un rutilante mondo in tre quarti. Ma nella musica si insinua quasi subito “un sottile senso della caducità”, come scriveva Claudio Magris a proposito del mito asburgico: basta pensare al terzetto del primo atto, con toccante accompagnamento di oboe e clarinetto che esplode con tutta l’orchestra in una polka – che è in due – per poi richiudersi in atmosfere minori prima che la danza ricominci di nuovo. In questo andamento schizofrenico è straordinario come nelle sezioni vivaci rimanga sempre un senso di stupore e quasi di tristezza per qualcosa che non si può capire fino in fondo: in quest’opera, della festa c’è davvero soltanto l’illusione.
Perché l’ascolto di Strauss non è tanto un viaggio a ritroso nel tempo, quanto una ricerca delle ragioni della modernità, come se le cause prime di ogni instabilità novecentesca si nascondessero in un valzer spensierato suonato in un salotto Biedermeier. Ma la musica riprende sempre senza dare risposte, con la sala che si allontana in piano sequenza storico-musicale, continuando il suo giro a vuoto in un contesto meravigliosamente démodé.
Peccato che alla Scala sia mancato il languore, l’ambiguità edonista, persino lo humour di quest’opera, nonostante l’ottima direzione di Cornelius Meister, sempre attento alla continuità, oltre che al carattere di ogni scena. Colpisce come il giovane direttore tedesco si sia tenuto lontano dal Kitsch: fin troppo, col rischio di rimanere un po’ freddo e distante dall’evidente assurdità che si porta dietro un’operetta un po’ matta come questa. Forse manca alla direzione l’”irresponsabile ilarità” di cui parla Karl Kraus, che della dissoluzione austriaca non è stato solo testimone ma profeta. E un’operetta ha il compito, magari anche inconsapevole, di far presentire nel groviglio di confusioni “un’immagine di tutto quanto va al rovescio nella nostra realtà.”
Eppure non si può biasimare il contenimento di Meister, visti gli eccessi della messinscena di un altro Cornelius chiamato per questa produzione. Obonya è un importante attore viennese che debutta a Milano con uno spettacolo piuttosto sgraziato, senza il ritmo teatrale necessario per i difficili passaggi tra canto e recitazione – che purtroppo è sia in tedesco sia in italiano. Non è tanto la mancanza dei rapporti di cause e effetti che disturba, né la confusione che qualche volta regna in palcoscenico, persino nelle coreografie di Heinz Spoerli, quanto la rinuncia a qualsiasi riflessione sulle allegre, caotiche leggi di questo piccolo mondo antico, scintillante e coerentemente illogico, quindi pericoloso perché sempre a un passo dal grottesco.
Chi purtroppo ne fa le spese sono i cantanti, bravi ma non sempre a loro agio: Eva Mei, Peter Sonn, Markus Werba, Michael Kraus, Daniela Fally, Elena Maxinova, Giorgio Berrugi, Kresimir Spicer e Anna Doris Capitelli. Pare invece perfettamente a suo agio Paolo Rossi nella parte del carceriere Frosch, con movimenti da Hollywood Party e battute vintage che funzionano anche grazie a un carisma che, incredibile a dirsi, sembra ancora intatto.
Fotografie: Brescia & Amisano / Teatro alla Scala