Sogno e teatro coincidono nella regia di Vick dell’opera di Korngold vista ieri per la prima volta alla Scala. Grande successo (e meritato) anche per la direzione di Alan Gilbert e la compagnia di canto nella quale spiccano Asmik Grigorian, Klaus Florian Vogt e Markus Werba
I sogni sono fatti della stessa sostanza del teatro. O era il contrario? Poco importa, quando Graham Vick è nei paraggi la probabilità che sogno e teatro coincidano è sempre molto alta. Come ieri sera per la prima rappresentazione di Die tote Stadt di Erich Wolfgang Korngold, opera culto di quasi cent’anni fa (1920) mai data alla Scala, che ha sedotto e continuerà a sedurre il pubblico milanese fino al 17 giugno: guai a chi se la perde. Insieme a Chovanščina, si tratta finora del più grande successo della stagione.
Un successo più che meritato: per il direttore, Alan Gilbert, che ha domato una partitura eclettica dagli equilibri estremamente complessi; per i cantanti, a partire da Asmik Grigorian, artista di qualità eccelsa da sentire in ogni occasione possibile, ma anche Klaus Florian Vogt e Markus Werba; infine per Vick, che ha proposto una lettura geniale di questo titolo decadente, alla faccia delle infinite voci che nei mesi scorsi decretavano in anticipo le scarse affinità tra il regista inglese e quest’opera.
Invece Vick ha spiazzato tutti. E non buttandola sulla politica, come si potrebbe pensare a prima vista, per i riferimenti alla gioventù hitleriana, ai nazisti, alle deportazioni. Al contrario Vick approfitta di questo prodotto della disgregazione di un impero, che per Musil era la “sottrazione” Austria-Ungheria meno Ungheria, per riflettere senza troppe sottolineature sui periodi di pericoloso incantamento dell’Occidente, che allora erano gravidi di disgrazie e che purtroppo sembrano parlare forte e chiaro anche al mondo di oggi. Ma andiamo con ordine.
Die tote Stadt è l’opera di un ventitreenne dalla precocità mozartiana, capace di assorbire tutti i riferimenti musicali che lo circondavano, anche grazie all’ingombrante consulenza del padre Julius, onnipotente critico della Neue Freie Presse succeduto a Hanslick. In poche parole, un paziente freudiano doc. Korngold scrive la sua opera più importante in quell’alba tragica che segue la prima guerra mondiale. E non si può non notare l’esuberanza melodica alla Puccini, la sua cieca fede nella tonalità o, più in generale, in una musica scritta per affascinare i sensi, quasi a dispetto della gaia apocalisse che aveva intorno.
L’opera è tratta da un romanzo simbolista di Georges Rodenbach, Bruges la morta (1892), con un vedovo che spera di ritrovare la moglie adorata (letteralmente, con tanto di reliquie) in una ballerina che le somiglia. Da La donna che visse due volte a Rebecca la prima moglie, il cinema si approprierà di questo nucleo narrativo, oltre che del colpo di scena finale immaginato dai due Korngold, padre e figlio, entrambi al lavoro sul libretto: era tutto un sogno del protagonista, trovata che farà scuola ai cineasti da Fritz Lang in poi (vedi La donna del ritratto), per non parlare di quasi tutti i registi d’opera oggi in circolazione.
Desideri repressi, violenze sublimate, trecce feticcio e deliri religiosi sono gli ingredienti di questo thriller hitchcockiano in musica che Vick mette in scena prendendosi dei rischi, evitando effetti banalmente persuasivi. Così si capisce subito che le tende a bouillonne, le rose scarlatte e gli altri abbellimenti in mostra fin dall’inizio sono soltanto un involucro per nascondere miserie e istinti spaventosi, con valenza particolare e universale insieme, di cui ci si rende conto quando alla fine del primo quadro il velo si solleva e comincia il sogno (purtroppo interrotto dal primo intervallo per insensate esigenze sindacali). Vick va oltre la suggestione delle gemme di Korngold, va oltre la bellezza quasi inebriante del lied del liuto o di quello del Pierrot, pagine che tenderebbero all’operetta se non diventassero qui la decorazione di un abisso, la visione allucinata degli ultimi giorni di un’umanità che si smaschera a poco a poco nel corso dello spettacolo, che non a caso si chiude nel vuoto di una scena spogliata di ogni cosa.
La Grigorian appare all’inizio come un’ingenua ragazzina inesperta del mondo e inconsapevole della propria bellezza, per trasformarsi in una vera e propria ménade quando l’opera fa la transizione al sogno. Ciò che più impressiona di questa artista straordinaria, oltre alla luminosità del canto e al magnetismo scenico, è la vitalità con cui gioca con il suo personaggio, quando si muove, balla, si dimena o semplicemente si siede in proscenio con le gambe rannicchiate. Perché a quel punto le basta allungare la “gelida manina” verso il suo spasimante per trasformarsi sotto gli occhi di tutti in una Mimì post-asburgica. In questo senso è l’interprete ideale per un regista di primi piani teatrali come Vick, capace di far sparire in un istante l’intero palcoscenico della Scala con il pubblico che trattiene il fiato davanti a due mani che si sfiorano.
Perfetto il vedovo Paul di Klaus Florian Vogt: nobile nel canto e impacciato nei movimenti, commovente nel finale, quando richiama il tema del lied di Marietta prima di domandarsi se sarà capace di lasciare la “città dei morti”. Markus Werba è un Frank ideale, oltre che magnifico Fritz-Pierrot in divisa da Gestapo con gorgiera. Ottima la Brigitta di Cristina Damian, come tutti i membri della compagnia di Marietta che nel secondo atto regalano quella scena delle maschere che Wake-Walker, nella recente Ariadne auf Naxos, non era stato in grado di montare.
Meritato trionfo anche per Alan Gilbert, che non si limita a venire a capo di una partitura che in pochissimi saprebbero dominare con tale sicurezza. Il direttore è capace di tendere a Strauss quando c’è Strauss e a Puccini quando c’è Puccini, senza che le due dimensioni siano mai incompatibili, perché nella sua lettura assumono la forma di differenti stati d’animo di una stessa interiorità, a cui non mancano solenni momenti d’insieme e inquietanti passaggi al limite dell’horror.
Fotografie: credit Brescia/Amisano – Teatro alla Scala