Gli Omini, giovane compagnia toscana in ascesa, giocano con l’antropologia e danno vita a uno spettacolo sull’inadeguatezza. Che, sulla panchina di una stazione, affrontano con ironia e disagiante eloquenza.
Alla stazione di Pistoia c’è chi viene e c’è chi va. Ma soprattutto c’è chi resta. Ad esempio Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi, Giulia Zacchini e Luca Zacchini, ovvero gli Omini, giovane compagnia toscana in ascesa (già vincitrice nel 2015 del premio Retecritica) che per un mese si è presa la briga di vivere lo scalo ferroviario della Porrettana per cogliere, giorno per giorno, il materiale del loro spettacolo.
A tener loro compagnia tra le banchine, i binari e i convogli, un’umanità variegata, spesso disagiata, come non manca di sottolineare il titolo dello spettacolo in scena al Franco Parenti, Ci scusiamo per il disagio, riferimento diretto e velatamente ironico all’annuncio più in voga tra gli altoparlanti delle care vecchie ferrovie del Belpaese. E in effetti gli uomini e le donne che i nostri hanno intervistato, con spirito etnografico-antropologico degno del miglior Zavattini, altro non sono che rappresentati di quella ‘povera gente’ a cui spesso guardiamo con distacco nella fretta di prendere il treno, e a cui gli Omini donano invece voce sul palco, traducendoli in una carrellata di (proto)tipi umani.
Scorrono infatti quasi senza soluzione di continuità davanti agli occhi dello spettatore squarci di incontri e situazioni, frammenti di dialoghi, monologhi-fiume e aforismi a singhiozzo ad opera di dolci e stralunati senzatetto, incorreggibili marchettari dall’animo malinconico, coppie di lunga data tormentate da una vita ingenerosa, donne appassite all’ombra della propria deludente parabola amorosa e così via. Testimoni scomodi, insomma, a cui normalmente si preferisce non prestare orecchio – si pensi, con le debite distinzioni, allo sgombero sommario di qualche giorno fa in Stazione Centrale a Milano – e che gli Omini, con un sottile sadismo, elargiscono allo spettatore in tutta la loro, ancora una volta, disagiante eloquenza.
Non si pensi però a uno spettacolo neo-neorealista, impegnato a ridisegnare fedelmente e drammaticamente sul palco il logorio sociale che causa la vita moderna: certo c’è uno sguardo ‘documentaristico’, benevolo e simpatetico, su tutta un’umanità claudicante che il treno lo ha perso davvero – “passato” in sordina “su un altro binario” – ma c’è anche una trasposizione teatrale che trasfigura il reale (vedi alle voci “mimodinamica” e “geodrammatica” di stampo lecoquiano) in materia spettacolare tout court. È con verve surreale al limite del nonsense e con un pizzico di postmoderno che gli Omini affrontano il proprio pamphlet antropologico.
Lo testimoniano soprattutto le citazioni musicali che spaziano da Shock in my town di Battiato al tema de Il buono, il brutto e il cattivo firmato da Morricone, prospettive sonore alternative ma non per forza antitetiche sulla materia trattata. La prima dà infatti vita a uno dei momenti più allucinati (e, duole dirlo, registicamente più deboli) dello spettacolo, in cui, a ruoli invertiti, un piccione antropomorfo e in doppio petto osserva interdetto e un po’ schifato la “tribù di sub-urbani, neo-primitivi, rozzi cibernetici signori degli anelli orgoglio dei manicomi” che si contorce alle sue spalle.
Come ad avvisare che il declino della specie sta lì dietro l’angolo, ma anche che chi guarda con disprezzo alle debolezze dell’essere umano si trasforma assai facilmente in una bestia abbietta e non ci sono giacca, cravatta o camicia che tengano! La seconda invece rimanda direttamente al disfacimento del mito della frontiera per mano del progresso: la stazione come uno ‘spaghetti western’, dove si parla una lingua biascicata, magari incomprensibile, eppure vivissima ed espressiva.
Un universo sanguigno, abitato da gente piena di difetti, capace ancora di sputare per terra, di importunare il prossimo senza troppe remore, di sporcarsi le mani perfino, ma in cui si condensa un pezzo della nostra natura di esseri imperfetti: il nostro cuore aritmico, incapace di stare al passo coi tempi, emotivo e socialmente inadeguato, ma che nemmeno trafitto dal treno e da un’omologazione imperante (Westworld docet) smetterà mai di battere. Meglio allora farci i conti. Umanamente.
Foto di Gabriele Acerboni
Ci scusiamo per il disagio de Gli Omini. Fino al 21 maggio al Teatro Franco Parenti