La casa editrice EDB ha voluto omaggiare René Girard pubblicando la trascrizione del discorso inaugurale tenuto all’Académie française, insieme a quello di accoglienza dell’amico e collega Michel Serres, sotto il titolo Il tragico e la pietà.
Quando perdiamo grandi intellettuali è come se si aprisse una specie di buco nero che con una forza centrifuga spietata ci strappa via saggi, conferenze, teorie, libri, pagine; l’autorevolezza di una voce passata al vaglio dei grandi drammi del Novecento. Uno di questi buchi neri è aperto dalla scomparsa di René Girard il 4 novembre scorso.
La casa editrice milanese EDB ha voluto omaggiare il professore di Stanford pubblicando per la prima volta in Italia la trascrizione del discorso inaugurale tenuto all’Académie française, insieme a quello di accoglienza dell’amico e collega Michel Serres, divulgati precedentemente nel 2006 dall’editore Le Pommier sotto il titolo Il tragico e la pietà.
Nata sulla scia dell’accademismo e fondata nel 1635 sotto l’egida di Luigi XIII per volontà di Richelieu, e facendo poi slalom tra Restaurazione e occupazione tedesca, l’Académie con i suoi quaranta seggi, ha ancora la missione di sorvegliare i mutamenti e le dinamiche della lingua francese con lo stesso sguardo sovrastante e imperituro con cui i gargoyle osservano da Notre-Dame l’Ile de la Cité, rappresentando una delle più antiche e venerabili istituzioni culturali. Essa, si è mantenuta viva nell’affastellarsi dei secoli attraverso un rigido sistema di tradizioni e rituali cerimoniali tali da farla apparire come una sorta di Olimpo destinato ad accademici provenienti da tutti i rami del sapere, e al quale si giunge solo tramite consacrazione. Non è un caso che le divinità che compongono questo Pantheon si aggiudichino il titolo indelebile di “immortali”; un’eternità che viene infusa dopo aver pronunciato un discorso nel quale il nuovo nominato ricorda il predecessore defunto, vestito con la tradizionale marsina verde ricamata, il mantello, il bicorno e la spada, seguito dall’elogio del nuovo immortale steso da uno dei membri.
Le tragique et la pitié, che ha consacrato Girard, è molto di più di un documento che riporta e fa rivivere uno spaccato di solennità accademica. Ci permette infatti di delineare con precisione la complessità di un pensatore come Girard grazie alla rievocazione che lui stesso fa del suo predecessore, padre Ambroise-Marie Carrè (uno dei pochi togati dell’Académie ad appartenere al clero secolare, domenicano e stimato oratore che predicò durante la resistenza al nazismo) seguita poi dalle parole grondanti di ammirazione e di riconoscenza di Michel Serres verso il nuovo nominato.
Per Girard l’etichetta di intellettuale conservatore o, volendo essere più grossolani, quella di “intellettuale di destra”, viene considerata inappropriata ma l’agiografia quasi misticheggiante che proietta sul religioso Carrè, sembra incrinare il suo stesso presupposto quando, per esempio, chiarifica il suo antirelativismo, palesa con sicurezza l’astio verso tutto ciò che produsse il ’68, ribadisce il suo scetticismo verso quelli che Paul Ricouer battezzò “maestri del sospetto” (ovvero: Freud, Marx, Nietzsche) come scriverà ne La violenza e il sacro nel 1972 e, infine, ricorda lo sguardo critico verso l’ondata di progressismo che scaturì all’interno della chiesa dopo il Concilio Vaticano II (a prova di ciò, la difesa e le parole di apprezzamento nei confronti di Benedetto XVI). Un’idealizzazione di cristianità al di là del dibattito progressisti/conservatori, estranea all’azione sociale e relegata nell’intimismo, nel “sentirsi non un cristiano del passato ma un cristiano permanente”. Michel Serres invece, nel suo elogio, chiama Girard “fratello mio” e lo definisce forse a buon diritto “nuovo Darwin delle scienze umane”, accendendo una torcia sul René Girard più universalmente e accademicamente noto; quello dell’analisi sull’antropologico negativo e dello studio sul rito e sacrifico, dei quali la mimesis del desiderio con la sua struttura triadica, non è altro che l’ossatura teorica. Anzi, a ben guardare, riesce a fare di più, tessendo lodi e racconti sull’intrecciarsi delle loro due vite, e ripercorrendo i nodi fondamentali degli studi girardiani, per ricomporre, alla fine, una soluzione e le sue inevitabili conclusioni:
“[…] Ed è così che ho appreso da lei ciò che ha cambiato la mia vita, la distinzione tra il sacro e il santo, né più né meno che tra il falso e il vero. Teologia, etica, epistemologia parlano, in tre discipline, una sola voce[…] Il santo si distingue dal sacro. Il sacro uccide, il santo appacifica. Non violenta, la santità si libera dall’invidia, dalle gelosie, dalle ambizioni verso le grandezze sociali, asili del mimetismo, e così ci libera dalle rivalità la cui esasperazione conduce verso le violenze del sacro. Il sacrificio devasta, la santità genera.[…]”.
Il filosofo e scrittore riassesta quindi le tensioni e le polarizzazioni che attraversano tutte le società, da quelle arcaiche del mythos, fino a quella a loro coeva provata dalla devastazione e dalla carneficina umana del secolo breve, tentando forse di placare quel vortice di emoglobina generato dalla ricerca connaturata della cosidetta “vittima espiatoria” e la cui violenza è il tramite storicamente necessario. Dopotutto, è il modo in cui Michel Serres tenta di ringraziare anni di ricerca su tragedia, religione, paganesimo, cristianità, mito e finzione narrativa in cui il minimo comune denominatore non è altro che una domanda: “Dove e per quali moventi, si origina il male?”. Queste poche pagine, insomma, riescono a disegnare un ritratto doppio, filtrato da due grandi personalità, che genera un ricordare concentrico del tempo e della memoria e costruisce in mano a chi le legge una struttura a scatole cinesi, della quale è necessario destreggiarne i pezzi per vedere l’oggetto completo delle sue parti fondamentali. Forse, a riprova del fatto che non tutta la luce può finire nell’antimateria.