Dittico Weill secondo Chailly

In Musica

Vanno in scena alla Scala “Mahagonny-Songspiel” e i “Sette peccati capitali“ del grande drammaturgo tedesco. Due opere non-opere, capolavori per la capacità di immaginare il futuro e profetizzare il presente. È un progetto che accarezzo da tempo – dice il direttore d’orchestra -, giusto per questo periodo in cui siamo costretti a lavorare a ranghi ridotti

Domani, 18 marzo, in streaming su Rai Cultura, e il 27 su Rai5, la Scala estrae dalla manica stretta dell’emergenza una seconda carta a sorpresa dopo la bellissima Salome di Strauss del 20 febbraio: un dittico raro, composto da Mahagonny-Songspiel e dai Sette peccati capitali che Kurt Weill scrisse su libretti di Bertolt Brecht nel 1927 e nel 1933. Sono opere non-opere, piccoli capolavori semiscenici che lasciano ancora senza fiato per la loro capacità di immaginare il futuro e profetizzare il nostro presente. In un linguaggio che anche un teen ager può sentire suo.

«È un progetto pensato molto tempo fa e mai realizzato – confessa Riccardo Chailly, direttore musicale della Scala in questi giorni confermato fino al 2025 e sul podio in tutti e tre i titoli -, un progetto che accarezzo da tempo, che ritengo opportuno e giusto per questo momento in cui siamo costretti a lavorare a ranghi ristretti, a ideare anche progetti musicali che escono dal grande organico. L’idea di questo dittico sta dando buoni frutti e ha avuto nel sovrintendente Meyer un sostenitore senza riserve fin dal primo momento in cui gliele ne ho parlato».  

Colpisce, dopo Strauss, incontrare nel cartellone di emergenza della Scala un prodotto della cultura tedesca così radicalmente diverso. 
Direi opposto. Ma è importante che l’orchestra della Scala possa confrontarsi con questi due Weill a distanza di meno di un mese da Salome con la capacità di penetrarne il senso, anche sotto il profilo dell’identità del suono. Parliamo di un’orchestra da camera per i Sette peccati capitali e di un ensemble di 13 musicisti per Mahagonny. Non è facile staccarsi da una ricerca stilistica che in Salome avevamo individuato con molta cura lavorando sul suono, prima il maestro Mehta e poi io quando sono subentrato. Avevo seguito la prima prova di Zubin con attenzione e ho subito capito quanto l’acustica della Scala, obbligata dalla pandemia, potesse per fortuna aiutare in maniera sorprendente la bellezza e l’opulenza romantica della scrittura di Strauss.

Una densità che acquistava trasparenze che in buca sarebbe stato difficile ottenere.
Fonicamente quasi impossibile. Centodieci elementi forzati nella vicinanza del golfo mistico: tutto viene compresso, rende difficile anche all’ascolto distinguere le tante linee parallele della strumentazione di Strauss. Per paradosso, il distanziamento e la platea utilizzata completamente come palcoscenico sono stati d’aiuto, nonostante la distanza dai cantanti. Erano lontani da me quaranta metri, una follia, e invece siamo riusciti a tenerci tutti insieme, in una esecuzione sostenuta con grande volontà da parte di tutti. Ho un bel ricordo di quella Salome e spero che la possiamo riprendere presto nel teatro riaperto.

In Kurt Weill c’è da lavorare in una dimensione opposta: far brillare pochi strumenti e poche voci in uno spazio enorme.  
Decisivo è avere un cast eccellente come il nostro: voci con emissione molto speciale, che hanno una cultura jazzistica, affine a quel mondo di Broadway che il primo Novecento di Weill già richiede. Come dici, far brillare i soli in orchestra è questione di stile e frutto di un lavoro che ci sta impegnando da tempo. Ma la partecipazione completa dell’orchestra e dei cantanti ha una scintilla nella capacità seduttiva della musica di Weill. Tutti ne sono conquistati. E questa seduzione collettiva sta dando risultati molto importanti.

Parliamo di un mondo, il musical, che Weill contribuirà ad arricchire presto, perché solo due anni dopo i Sette peccati, nel 1935, sarà costretto a emigrare negli Stati Uniti e comincerà a lavorare a qualcosa che potremmo chiamare post-Gershwin.
Diciamo che la sua vera opera lirica è stata L’Ascesa e caduta della città di Mahagonny, la versione per Lipsia in tre atti, con voci impostate e importanti, dall’heldentenor al soprano drammatico. Ma Mahagonny Songspiel, che lo precede e che ritengo un vero capolavoro, impone una vocalità completamente diversa. Cantanti come Kate Lindsey e Lauren Michelle conoscono quel mondo che avvicina il jazz negli anni venti-trenta. Sanno che cosa significa swing, concetto e pratica difficile, non codificata, non scritta perché sta tra le note. 

L’Opera da tre soldi è del 1928. Mahagonny Songspiel e i Sette peccati capitali precedono e seguono l’opera più nota e eseguita di Brecht e Weill, considerata il vero capolavoro, ma in fondo sono pezzi di teatro anche più taglienti, che comunicano con la nostra sensibilità in forma più asciutta e diretta. 
Sono d’accordo. I libretti di Brecht sono fortemente provocatori e attualissimi. Non dimentichiamo il flop di Mahagonny a Baden Baden, che turbò la borghesia tedesca. Per fortuna anche allora c’era gente con ben altra attitudine all’ascolto, rappresentata dal giudizio di musicisti come Otto Klemperer, che dopo la prima non ebbe dubbi nel percepire l’assoluta proiezione verso il futuro di quest’opera. 

Nella loro forma sintetica e semiteatrale, Mahagonny e Die sieben Todsünden sono stati anche modelli per tanta musica contemporanea. 
In questo Irina Brook è la perfetta partner del mio percorso interpretativo, Di questo teatro essenziale ha fatto tesoro, adoperandone i segnali sia nell’allestimento, radicalmente povero, sia nella recitazione. Sotto questo aspetto ha avuto un’idea nuova e interessantissima: far iniziare lo spettacolo con i Sieben Todsünden, nonostante siano posteriori, del ‘33, e aiutata dall’uso della pantomima, non di una vera coreografia, suggerisce come le due Anne dei Sette peccati siano già le due donne di Mahagonny, Begbick e Jenny, che dopo aver girato le sette città per fare denaro, raggiungono l’ottava, Mahagonny, la più perversa, inesistente e fittizia di tutte.

La città dove ogni cosa è possibile e tutto è concesso, tranne non avere soldi. Difficile dimenticare che, nel mondo globalizzato, la finanza possa scavalcare le nazioni e governare gli stati
Una analogia spaventosa. Così come a un certo punto in Mahagonny c’è anche l’annuncio di un terremoto, di un cataclisma ch’è un po’ quello che scuote noi oggi. Un altro riferimento attualissimo. Il mio amore per Weill parte comunque da lontano, da quando ragazzo ho eseguito più volte la Dreigroschenmusik e il Berliner Requiem, pagine che mi sono rimaste sempre dentro, anche se non ho più avuto occasione di riprenderle. In quegli anni avevo studiato anche Mahagonny e i Sette peccati capitali. Il destino ha voluto che potessi realizzarli in un momento travagliato che li carica di un significato ancor più simbolico.

Lauren Michelle, Kate Lindsey, Martin Chishimba ((Foto Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala)

E possiamo anche minimizzare la chiave politica del tempo in cui sono nati.  In fondo si parla di vita, di sconfitte, di soprusi, di “premi del Male”. Che siano i vizi della piccola borghesia era discriminante, ormai poco importa. 
Direi che anzi impone un’autoanalisi a tutti noi che eseguiamo e ascoltiamo questa musica oggi. Guardiamo ai cosiddetti sette peccati con l’occhio di Gianfranco Ravasi, mio caro amico, che ha scritto un libro fondamentale, Le sette malattie dell’esistenza, in cui mette i vizi in un ordine discendente, diverso da quello di Brecht e Weill. L’ordine di Ravasi, dal peggiore al “minore” è: Superbia, Avarizia, Lussuria, Ira, Gola, Invidia, Pigrizia. Interessante rifletterci. Sappiamo che tutto inizia con un monaco del quarto secolo, Evagrio Pontico: il primo che abbia scritto un libro che cataloga i demoni della malvagità. In una società come la nostra, molto densa e nello stesso tempo liquida per le moltiplicate occasioni di esternare noi stessi, scopriamo che proprio chi “vive” quei vizi ha più occasioni di visibilità.

Già, l’accesso alla comunicazione dà via libera prima ai vizi che ai meriti di una società. Un altro messaggio elaborato in quel laboratorio della tragedia che era la Berlino anni Venti. 
Tangibile perfino in particolari come il Coro della famiglia. Anche nell’introduzione della partitura Universal ai Sette peccati viene segnalato come Kurt Weill fosse rimasto impressionato da un gruppo vocale, i Comedian Harmonists, cinque voci maschili e pianoforte, che in quegli anni, prima della seconda guerra, avevano enorme successo in Germania. Weill ne ha chiaramente tratto ispirazione per le quattro voci della famiglia.

Un coro in miniatura che commenta ma soprattutto spinge le due figlie, Anna I e Anna II, a viaggiare per sette anni in sette città alla ricerca del denaro per la casetta in Louisiana, costi quel che costi.
Sono cori sinistri, che lasciano pietrificati. Pensiamo anche alla scena dell’arrivo di Dio in Mahagonny: sulla parola Gott ho voluto caricare un accento, per sottolineare l’assoluta impossibilità dell’esistenza di Dio in quella città del male.

Città che Brecht immaginava, come tante, come tutte, in America, dove Dio viene invocato spesso, anche quando si ha un’arma in mano.
Ne parliamo in teatro ogni giorno: la sovrapposizione di quello che raccontiamo con la musica in questo dittico ha delle assonanze inquietanti con la realtà. 

E la forza della sintesi di un musicista che aveva il dono della melodia come pochi altri nella storia.
Queste partiture ti rimangono dentro per sempre. Dicevo ai musicisti come sia possibile che anche chi si dedica al repertorio più alto possa non conoscerle. 

Melodia e ritmo. Weill era maestro nella combinazione di questi cardini della musica.
Già, consideriamo il valzer. Strauss è il trionfo del Wiener Waltz. Weill, a parte la carica anche parodistica, fa del valzer un uso che lo riduce a scheletro sull’andamento ritmico del tre quarti, ma sempre con un atteggiamento evolutivo, uno sguardo proiettato in avanti. C’è sarcasmo, ma non nostalgia, carattere che riserva ai momenti in cui si abbandona ai momenti anche lascivi, alla sensualità del suo linguaggio. E l’altro elemento ritmico dominante è il fox-trot.

Con l’arrivo dei primi dischi d’oltreoceano, Berlino fu una delle prime città d’Europa affascinate dal jazz. 
In questo la testimonianza dell’ Opera da tre soldi incisa da Klemperer è rivelatrice, è una esecuzione di prima mano, che con l’orchestra della Kroll Opera recepiva gli umori del tempo e delle esecuzioni supervisionate da  Weill. Credo sia una rivelazione per Milano avere la possibilità di ascoltare queste opere in originale e in forma scenica. Strehler aveva curato una Mahagonny in italiano alla Piccola Scala, nel 1964. Ma io ricordo il Berliner Ensemble con Gisela May, una sorta di Lotte Lenya degli anni Settanta, che trasmetteva tutta la forza provocatoria di questo testo. Lo ricordo perché c’ero a quei concerti. E sono i motivi per cui sono così attratto da questi lavori di Kurt Weill.

Qualcuno suggerisce che Zaubernacht, un balletto per bambini del 1922, sia stato quello che accese in Weill la scelta di comunicare nella forma diretta che non tradì mai, dopo aver coltivato studi accademici di alto profilo, anche con Busoni, e composto Sinfonie. 
È possibile che sia stata la scintilla di una consapevolezza. Ma c’è un’altra opera che fa parte dei miei desideri, e non so se realizzerò. Si tratta di Happy End, che si colloca esattamente fra queste due. Fu accolta anch’essa come una rivoluzione. Ne diedero sette repliche e poi la chiusero. Il che contrasta con quello che avvenne poi a Broadway anni dopo, quando la replicarono per quaranta volte. E dice quanto il tempo abbia restituito a Weill il valore della sua musica. 

Scritta a quattro mani da Brecht e da Elisabeth Hauptmann, che però si era firmata Dorothy Lane: già un travestimento e una fuga dal Vecchio Mondo.  
Happy End è del 1929 e parla di una banda di Chicago legata alle banche americane! Il nostro dittico finisce con le ultime battute di Mahagonny in re minore, poi parte il la minore della registrazione dei Doors del ‘78: l’Alabama Song cantata da Jim Morrison, come un sogno che ritorna ai giorni nostri. Dopo lo streaming su Rai Cultura, siamo riusciti a offrire il dittico al pubblico anche su Rai5 il 27 marzo, che sarebbe il giorno dedicato all’ipotetica riapertura dei teatri. Che non avverrà, lo sappiamo, ma carica questo spettacolo di ulteriori significati simbolici. 

Teatro alla Scala, Die Sieben Todsünden e Mahagonny – Songspiel di Kurt Weill. Dirige Riccardo Chailly, regia di Irina Brook. (Domani 18 marzo in streaming su Rai Cultura, e il 27 su Rai5)

Immagine di copertina: Elliott Carlton Hines, Michael Smallwood, Kate Lindsey, Andrew Harris, Matthäus Schmidlechner, Lauren Michelle (Foto Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala)

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