Sandro Gorli, fondatore e direttore artistico di “Divertimento Ensemble”, ci parla di musica, dell’attuale situazione italiana e dei prossimi progetti del gruppo
Ha preso il via la nuova stagione di Divertimento Ensemble che in questo 2017 festeggia i quarant’anni di attività. In procinto del secondo appuntamento – questa sera al Teatro Litta –, Sandro Gorli, fondatore e direttore artistico dell’Ensemble, ci parla di musica, dell’attuale situazione italiana e dei prossimi progetti del gruppo.
In questi giorni si è molto parlato dell’indagine fatta da Gianluigi Mattietti su Classic Voice relativa alla musica contemporanea. L’Europa sembra porsi ancora come luogo di produzione e scambio. L’Italia, in questo contesto, come si inserisce?
In Italia ci sono tantissimi compositori bravi, fra i più bravi, conosciuti e seguiti in Europa. Negli ultimi 30 anni sono emerse voci importanti, riconosciute da tutti. La maggior parte di queste purtroppo lavora e vive molto più all’estero che qui. Penso a Gervasoni, Filidei, Lanza…
Questo fornisce già un quadro della situazione italiana.
Sì. Dall’Italia arrivano tanto voci significative ma non ci sono le possibilità e i mezzi per lavorare bene. Non ci sono istituzioni a sufficienza né tanti ensemble che eseguono musica contemporanea. Non si creano occasioni di lavoro.
In questa situazione generale come si colloca Divertimento Ensemble?
Per noi è fondamentale la diffusione ma soprattutto la produzione di musica contemporanea, con particolare attenzione ai più giovani. Per varie ragioni, non ultima anche una nostra crescita, artistica e di struttura, abbiamo sempre più cercato di fare noi quello che manca in Italia. Ad esempio investiamo molto nella formazione di giovani musicisti che si vogliono avvicinare alla contemporanea, abbiamo creato corsi per direttori d’orchestra, workshop per giovani compositori e cerchiamo di sostenere la produzione dei più giovani con molte commissioni ogni anno. Cerchiamo di sostituirci a quelle istituzioni che mancano, è il ruolo che ci siamo assunti.
Cosa pensa dello “scollamento” tra musica contemporanea e società?
È qualcosa che avviene dall’inizio del secolo scorso, ci sono delle ragioni che lo spiegano. La ricerca che i compositori fanno sulla realtà utilizza un linguaggio complesso che richiede una certa attenzione, esattamente come la lettura di poeti contemporanei o la piena comprensione dell’arte contemporanea. La pittura ha delle ragioni di mercato e quindi vende di più e viene seguita di più ma non credo sia molto più facile da capire appieno. È vero che noi siamo più abituati a guardare che ad ascoltare quindi avvicinarsi alla musica è forse più difficile.
In che modo si può colmare questa distanza?
La musica soffre di tante difficoltà; la nostra società ci riempie le orecchie di suoni in tutti i luoghi e forse questo è un altro impedimento ad ascoltare una musica più di ricerca. Detto questo noi diamo molta attenzione ai lavori dei giovani compositori e forse non è il modo più facile per avvicinare un vasto pubblico. Più facile sarebbe pensare a una stagione che proponesse pezzi di musica contemporanea “sicuri”, già conosciuti, di Berio e Maderna ad esempio. Noi invece commissioniamo all’incirca una decina di pezzi nuovi tutti gli anni, di questi dieci magari la metà sono molto belli e gli altri meno riusciti. Parallelamente però stiamo facendo un lavoro per cercare di avvicinare il pubblico: già dallo scorso anno abbiamo avviato il progetto Take your time che prevede lezioni in libreria. Abbiamo inserito nella stagione di quest’anno temi di impegno sociale, abbiamo coinvolto le scuole, abbiamo creato un nuovo coro…
Vero è che non si può mai parlare di grande pubblico perché anche la musica classica non ne ha.
Facendo tutte queste attività avete avuti riscontri?
È un processo lento, su cui bisogna insistere molto, però un avvicinamento l’abbiamo notato e soprattutto mi sembra che ci sia una platea che ha più consapevolezza di quello che va a sentire. Si potrebbe anche fare di più, per esempio sarebbe utilissimo portare il discorso all’interno dei licei. Anni fa una cosa del genere è stata fatta in maniera molto tecnica a Reggio Emilia e ha funzionato benissimo. Poi è stata interrotta. Le ragioni per cui è difficile portare avanti questi progetti sono sempre le stesse. Se il comune di Milano li finanziasse, noi li faremmo volentieri. Ci vogliono soldi che significano energie, persone disposte a lavorare, entusiasmo, idee.
Parliamo della stagione di quest’anno che celebra i vostri quarant’anni. Che bel traguardo!
Sì, sono entusiasta. Alla serata inaugurale, il 18 gennaio, ero molto emozionato: abbiamo eseguito 33 Variazioni (sulle Variazioni Diabelli di Ludwig van Beethoven) composte per noi da coloro che negli anni hanno lavorato e collaborato più volte con la nostra formazione, come Francesconi, Gervasoni, Ghisi, Laganà, Andreoni, Solbiati. È stata una vera festa, tutti e trentatré i compositori erano presenti in sala e ognuno ha dato il suo apporto adornando, perfezionando, parodiando, trasfigurando il “tema” assegnato.
C’è qualche particolare serata che vuole segnalare nel festival di quest’anno?
Ci sono dei progetti cui tengo particolarmente e su cui vorrei soffermare l’attenzione: sono i tre concerti legati al tema della migrazione, i quattro concerti dedicati a Sciarrino e la formazione di un nuovo coro non professionale per il pezzo di Solbiati. Questa è un’idea di cui vado molto fiero e finora abbiamo avuto successo: volevamo un gruppo di cinquanta persone e se ne sono fatte avanti più di sessanta! Fortunatamente proviamo nella sala coro del Conservatorio che è grande e può ospitare tutti. Anche questo è un bel modo per avvicinare la gente. Recentemente sono stato alla prima prova e ho percepito grande entusiasmo da parte di tutti.
In che modo trattate il tema delle migrazioni?
Ho deciso di chiedere ai compositori di dare una loro lettura su una tematica sociale e quest’anno abbiamo scelto quella delle migrazioni. La musica contemporanea non deve rimanere estranea alla realtà che la circonda e bisogna spingere i compositori a mettersi in relazione con questi temi. Inoltre immagino che possa essere un buon modo per incuriosire e avvicinare chi è sensibile a queste tematiche: chissà che non sia più incentivato a capire anche cosa la musica sta dicendo.
Cosa si sente di consigliare ai giovani compositori?
Domanda difficile. Quando insegnavo dicevo sempre di cercare di scrivere quello che realmente sentivano, chiedevo loro di sentirsi liberi stilisticamente. Non è un’indicazione facile perché se si ottengono dei risultati arrivano dopo tanto tempo e quindi si ha sempre paura di sbagliare. A volte viene più facile inserirsi in una scia già consolidata per paura di sbagliare. La libertà vuol dire essere sé stessi senza paure. Lavorando in un certo modo però sono conquiste che si possono e devono ottenere.
Vuole aggiungere altro?
Invito tutti questa sera al nostro secondo appuntamento: ci sarà una prima assoluta di un pezzo di Niccolò Castiglioni, un brano interessante rimasto per trent’anni nel cassetto di un suo ex allievo, Luigi Mandelli, a cui Niccolò l’aveva regalato. Nel 2014, esaminando i documenti del compositore custoditi da Mandelli ho potuto vedere la partitura e ho deciso di far conoscere al nostro pubblico questo significativo lavoro del compositore scomparso 11 anni dopo averlo scritto.